Con quasi trent’anni di ritardo, il 13 dicembre 2015 si è tenuta la cerimonia di inizio lavori della pipeline Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, più eloquentemente nota come “gasdotto della pace”. Un’inaugurale colata di cemento è stata deposta nel deserto del Karakum, 300 chilometri Nordest dalla capitale turkmena Ashgabat, alla presenza del presidente Gurbanguly Berdymukhammedov, del suo omologo afghano Ashraf Ghani, del premier pakistano Nawaz Sharif e del vicepresidente indiano Mohammad Hamid Ansari. Un messaggio rivolto dai quattro leader alle generazioni future è stato avvolto in una capsula speciale e immerso nelle fondamenta, mentre uno schermo panoramico trasponeva in immagini ciò che finora si è rivelato essere soltanto una chimera: “il più ambizioso progetto energetico del XXI secolo”, per usare le parole del ministero degli Esteri turkmeno, assume concretezza dopo un nuovo anno di morti record tra i civili afghani: oltre 1600 soltanto nei primi sei mesi del 2016, il valore più alto mai registrato da quando otto anni fa l’Onu ha iniziato a tenere il computo delle vittime del conflitto tra Kabul e i Taliban.
“Il TAPI ravviverà l’importanza dell’Afghanistan nella regione,” ha spiegato ai media Ghani alludendo alla realizzazione di una “nuova Via della Seta” in grado di creare almeno 12mila posti di lavoro per la popolazione locale. Di più. Come fa notare il direttore generale dell’Asian Development Bank (ADB), “il gasdotto segna un nuovo capitolo nella cooperazione economica regionale. Un vero e proprio punto di svolta, un impegno storico che viene incontro al fabbisogno energetico della regione e contribuisce a sua volta allo sviluppo, alla pace, alla sicurezza e alla prosperità”. I risvolti strategici sono più sfumati, ma facilmente riscontrabili fin dagli albori.
In nuce già negli anni ’90, il progetto ha cominciato a prendere forma quando le compagnie petrolifere internazionali avvertirono l’esigenza di aggirare il dirigismo di Mosca, che al tempo controllava tutte le infrastrutture energetiche (e quindi le esportazioni) della regione. Ma l’instabilità politica dei Paesi coinvolti nell’opera e l’attacco alle Torri Gemelle hanno causato numerose interruzioni e posticipazioni, nonostante l’interessato endorsement più volte ribadito dai Talebani all’esecuzione del progetto. Dopo più di due decadi, gli ostacoli sono ancora molti, gli interessi in gioco altrettanti. Mentre il tracciato presenta insidie di natura politica — non solo attraversa le terre dominate dai gruppi insurrezionalisti ma collide anche con le vecchie inimicizie tra Delhi e Islamabad, ai ferri corti per via dell’irrisolta questione kashmira — il lato tecnico-finanziario si dimostra non meno spinoso.
Il progetto prende le mosse dal giacimento turkmeno di Galkynysh (il secondo più grande al mondo con riserve pari a 27,4 trilioni di metri cubi) e dovrebbe pompare 90 milioni di metri cubi di gas al giorno per 30 anni: 38 destinati rispettivamente a India e Pakistan, mentre i restanti 14 andranno all’Afghanistan. Lasciato Galkynysh, le condotte attraverseranno Herat e la provincia afghana di Kandahar prima di entrare in Pakistan. Qui una volta raggiunta Quetta, proseguiranno per Multan terminando infine a Fazilka, nella regione del Punjab lato indiano. Trattandosi del primo collegamento terrestre significativo fino al subcontinente, il gasdotto si appresta a ridisegnare definitivamente la connettività regionale. Come spesso accade, alla pipeline seguiranno presumibilmente strade e binari. Allora — assicurano i promotori del progetto — il gap infrastrutturale che al momento divide l’Asia Centrale da quella Meridionale risulterà finalmente appianato. Un traguardo che verosimilmente verrà raggiunto non prima del 2022, data stimata per il completamento delle condotte.
Ma Ashgabat ha fretta. L’inizio dei lavori capita in un momento di affanno per il regime di Berdymukhammedov, dipendente in maniera atavica dalle esportazioni di idrocarburi. I prezzi del gas sono dimezzati rispetto ai valori del 2014, quando il Turkmenistan cresceva a un ritmo dell’11 per cento; la Russia, che un tempo importava 40 miliardi di metri cubi di gas l’anno, ha interrotto tutti gli acquisti due anni fa per i noti problemi economici, mentre l’Iran è stato scaricato a gennaio 2017 a causa del protratto ritardo nei pagamenti. Ad Ashgabat non resta che la Cina, suo principale acquirente. Ma il gigante asiatico compra gas turkmeno a prezzi stracciati (185 dollari per 1000 metri cubi, meno di quanto versato agli altri fornitori), e la maggior parte delle forniture andate a Pechino sono sinora servite a ripianare il debito contratto con la China National Petroleum Corporation (CNPC) per la costruzione del gasdotto Cina-Turkmenistan (operativo dal giugno 2014), lasciando le casse del governo turkmeno a secco. Ecco che il TAPI si propone di sganciare l’ex Repubblica sovietica dall’orbita cinese diversificando il suo portafoglio clienti, in accordo con la tradizionale “politica multivettoriale”. I fatti, tuttavia, testimoniano l’irreversibile dipendenza della regione dall’operosità cinese.
Mentre i costi di costruzione delle condotte (10 miliardi di dollari) ricadranno per l’85 per cento sulle finanze del governo turkmeno, che ne ripartirà il 34 per cento tra investitori vari — con Afghanistan, Pakistan e India a contribuire soltanto per il 5 per cento -, in futuro “altri Paesi coinvolti nel progetto potranno aumentare la propria quota, se lo desiderano”, spiega il quotidiano pakistano The Express Tribune. Finora, la partecipazione straniera — indispensabile per sopperire all’inadeguatezza tecnica dei quattro protagonisti — si è scontrata con le resistenze difensive del Turkmenistan. Si era parlato di un consorzio d’oltreconfine, capitanato dalla francese Total. Il piano è poi deragliato a causa della contrarietà di Ashgabat a cedere quote di partecipazione nel prezioso giacimento. Rimane una vaga speranza di una cordata russo-cinese composta da Gazprom e CNPC, in grado di affiancare la TAPI Pipeline Co. Ltd, consorzio capitanato dalla governativa TurkmenGaz — di cui fanno parte l’Afghan Gas Enterprise, la pakistana Inter State Gas Systems e l’indiana GAIL — incaricato di finanziare e gestire le condotte.
Nell’attesa che questo avvenga, il gigante asiatico si è già silenziosamente ritagliato un posto in prima fila. Nell’agosto 2016 una compagnia cinese ha battuto le concorrenti russe ed europee aggiudicandosi la costruzione di 300 chilometri di pipeline all’interno dei confini turkmeni. Primo balzo in avanti verso un maggiore protagonismo, reso possibile grazie al momentaneo disimpegno del vecchio “mecenate” regionale, Mosca, troppo preso dalle proprie beghe finanziarie per sobbarcarsi le spese di un progetto sulla cui fattibilità rimangono ancora molti dubbi. Questo sembrerebbe spianare la strada alla seconda economia mondiale, una professionista delle “mission impossible” con all’attivo progetti minerari in Afghanistan e ciclopiche opere infrastrutturali nella turbolenta regione pakistana del Beluchistan.
Come ci spiega Nadine Godehardt senior associate presso il German Institute for International and Security Affairs nonché autrice di “The Chinese Constitution of Central Asia”, “la maggior parte dei Paesi di questa regione, da quando hanno raggiunto l’indipendenza fino a oggi, si sono rivelati incapaci di sostenere finanziariamente le infrastrutture (gasdotti, reti elettriche ecc..) senza un supporto esterno. Quindi quello che Pechino sta facendo non è tanto mettere le mani sulle risorse energetiche, ovvero sui giacimenti, quanto piuttosto ottenere il comando sul sistema di pipeline”.
Ma la Cina non è la sola ad aver fiutato le potenzialità inespresse della regione. Contestualmente all’annuncio dell’adesione cinese, un consorzio nipponico è stato posto a capo dello sviluppo del giacimento di Galkynysh, per il quale verranno sborsati 15 miliardi di dollari. Un più esplicito coinvolgimento del Sol Levante, rispetto al discreto ingresso dell’Asian Development Bank — a guida nipponica- confluita nel TAPI prima in qualità di consulente e più recentemente come investitore.
Commentando la notizia, l’Express Tribune affermava che “Giappone e Cina stanno emergendo come protagonisti” nella realizzazione del progetto energetico: il primo estraendo il gas, la seconda controllando la pipeline. In realtà, sarebbe più opportuno parlare di un presenzialismo a tutto tondo, con i due cugini asiatici impegnati a promuovere una propria idea di connettività attraverso l’Eurasia. C’è la Nuova Via della Seta cinese, quella vagheggiata da Pechino fin dagli anni ’90 e rilanciata in pompa magna dal presidente Xi Jinping nel 2013 — nella duplice forma della Silk Road Economic Belt (la cintura terrestre) e della 21st Century Maritime Silk Road (il ramo marittimo) — che promette di portare sviluppo e stabilità in oltre 60 paesi, coinvolgendo il 60% della popolazione mondiale, il 75% delle risorse energetiche, e il 70% del Pil globale. E poi c’è la Via della Seta giapponese, meno sbandierata più tecnologica e trainata da un consolidato export di know-how, suggellata due anni fa dalla tournée centroasiatica di Shinzo Abe, primo capo di governo nipponico ad aver visitato tutti e cinque gli “stan”. All’epoca il premier si impegnò a sostenere economicamente progetti infrastrutturali e di altra natura per oltre 24 miliardi di dollari, di cui 18 miliardi proprio in Turkmenistan.
Soppesando la storica visita, un funzionario del ministero degli Esteri nipponico parlò senza mezzi termini di un “matrimonio di convenienza” tra Tokyo e le ex Repubbliche sovietiche. Letteralmente: “considerata la crescente presenza della Cina, sarà importante per il Giappone mostrare di volersi impegnare nello sviluppo di questa area”, più di quanto il Sol Levante non abbia già fatto attraverso la piattaforma di dialogo “Central Asia plus Japan” istituita nel 2004. Che il messaggio sia stato recepito lo dimostra il pressing di Tokyo, culminato in un incremento degli aiuti pubblici allo sviluppo per la prima volta in 17 anni e nel recente annuncio dell’istituzione di un nuovo veicolo finanziario, in aggiunta all’ADB e alla Japan International Cooperation Agency: la Japan Infrastructure Initiative, joint venture tra Mitsubishi UFJ Lease & Finance, Hitachi Capital e Bank of Tokyo-Mitsubishi UFJ, che punta a fornire 878 milioni di dollari in progetti infrastrutturali “Made in Japan” tra Asia, Europa e Stati Uniti. Una risposta per le rime al Silk Road Fund e all’Asian Infrastructure Investment Bank lanciati negli ultimi tre anni da Pechino appositamente per puntellare la propria Via della Seta, e da cui il Giappone si è tenuto fuori.
Offrendo una “Partnership for Quality Infrastructure — in opposizione al management, in miglioramento, ma non sempre impeccabile delle imprese cinesi — il Paese insulare si presenta agli occhi dell’Asia Centrale come una salvifica alternativa al soffocante abbraccio di Pechino, principale interlocutore regionale quanto a prestiti e scambi commerciali. Finora per entrambi i Paesi la regione ha costituito essenzialmente una preziosa miniera di materie prime. Tre quarti dell’export centroasiatico verso il Celeste Impero è composto da materiali grezzi, petrolio e metalli ferrosi e non ferrosi. Similmente, al volgere del nuovo secolo Tokyo ha cominciato a puntare le riserve locali di uranio per nutrire l’industria nucleare nazionale.
“Mi pare di riscontrare una notevole sovrapposizione tra l’approccio utilizzato dal Giappone e dalla Cina in Asia Centrale”, ci spiega Samuel Ramani, giornalista e dottorando presso l’Oxford University, specializzato in politica estera russa. “Le differenze sono marginali. Un esempio: il Giappone ha mostrato la predisposizione a scambiare tecnologia con più regolarità rispetto alla Cina. E ricoprendo un ruolo secondario nella regione è stato in grado di presentarsi agli interlocutori locali come una potenza meno egemonica, a tutto vantaggio del proprio soft power”. Tuttavia, rispetto agli obiettivi iniziali, proiettati nel settore estrattivo, dal disastro di Fukushima in poi Tokyo ha intensificato i suoi investimenti tecnologici nei mercati energetici centroasiatici principalmente per compensare la brusca fine della sua dipendenza dal nucleare; da un’angolatura più geostrategica, per impedire alla Cina di monopolizzare il controllo sui ‘porti in acque calde’ della regione (quelli che non ghiacciano mai), come dimostrano i 2 miliardi devoluti alla costruzione dello scalo turkmeno di Turkmenbashi, sulle coste del Mar Caspio.
“Alcuni funzionari cinesi sono preoccupati dall’eventualità che la Via della Seta giapponese finisca per beneficiare indirettamente la Russia”, aggiunge Ramani, “ma gli stretti legami del Giappone con l’Ucraina e la questione delle Isole Curili, controllate da Mosca e rivendicate da Tokyo, suggerisce l’esistenza di poche prove a sostegno di un’occulta cooperazione russo-giapponese contro la Cina in Asia Centrale”. Il gigante asiatico, per ora, può ancora dormire sonni tranquilli.
Infatti, se le mire dei due cugini asiatici apparentemente si assomigliano, la strategia attuata si differenzia per sofisticatezza e doti organizzative, gettando diverse incognite sulle reali capacità del nuovo attore regionale. Non si tratta soltanto di disponibilità economiche sbilanciate (a favore di Pechino, ovviamente). O di ampiezza di vedute, che nel caso cinese implicano sfumature securitarie (per via dei confini porosi con Pakistan, Afghanistan e tre ex Repubbliche sovietiche) e commerciali (in funzione di maggiori scambi tra i mercati del Far East e quelli europei). Laddove sinora le aziende giapponesi hanno proceduto “disordinatamente” prive di una guida, le cinesi operano da decenni sotto il cappello statale con la disinvoltura di chi è avvezzo a trattare con la corruzione dei regimi autoritari.
Un vantaggio competitivo che, tuttavia, non costituisce un’assicurazione di successo. Secondo l’Economist la rivalità tra aziende giapponesi e cinesi non è immune da pericoli. La pressione politica esercitata per ottenere contratti in importanti progetti infrastrutturali potrebbe, infatti, portare le aziende e gli istituti di credito a sostenere investimenti incapaci di generare ritorni maggiori o soggetti a notevole rischi operativi. Proprio come il TAPI.
Di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.