Gli Stati uniti non potranno più rifornirsi dall’azienda cinese Hoshine Silicon Industry Co, uno dei principali esportatori di polisilicio, un materiale fondamentale per la produzione di pannelli solari. L’amministrazione Biden ha affermato che il divieto di importazione – emesso ieri dalle autorità doganali – riguarderà anche i prodotti realizzati all’estero con polisilicio di Hoshine, che ha sede nello Xinjiang. “I nostri obiettivi ambientali non saranno raggiunti sulle spalle degli esseri umani in un ambiente di lavoro forzato”, ha spiegato in conferenza stampa il segretario alla Sicurezza interna Alejandro Mayorkas, “estirperemo il lavoro forzato ovunque esista”. La Cina produce la metà del polisilicio reperibile a livello mondiale. Il ban è arrivato contestualmente all’inclusione di cinque entità cinesi – compresa Hoshine – nella lista nera del Commercio. L’accusa è sempre quella di sfruttare le minoranze etniche nella linea di produzione. Xinjiang Production and Construction Corps (XPCC), Xinjiang Daqo New Energy Co; Xinjiang East Hope Nonferrous Metals Co, e Xinjiang GCL New Energy Material Co non potranno più importare “commodities, software e tecnologia” dagli Stati uniti. Con le nuove misure Washington rimanda ancora una volta il minacciato divieto totale sull’import di prodotti xinjianesi. Ma proprio ieri il Senato ha approvato una bozza di legge che – se ultimata – bandirà tutte le merci provenienti dalla regione autonoma cinese, a meno che le aziende non siano in grado di provare che non sia stato utilizzato il lavoro forzato nel processo produttivo. Mentre l’attenzione del governo americano è concentrata sulle transazioni commerciali, secondo il SCMP, negli ultimi anni i principali fondi comuni di investimento americano hanno investito massicciamente in aziende statali con base in Xinjiang e ufficialmente coinvolte nella lotta alla povertà attraverso dubbi piani di reclutamento della popolazione locale che includono la “rieducazione ideologica”.
Intanto il dipartimento di Stato ha manifestato preoccupazione per le pressioni a cui sono sottoposte le organizzazioni incaricate di effettuare valutazioni sull’integrità etica della supply chain in Cina. [fonte Reuters, SCMP Axios]
Covid: spariti campioni di test da una banca dati internazionali
Gli scienziati cinesi hanno cancellato dati cruciali sui primi casi di Covid-19 con l’obiettivo di oscurare la verità sulle origini della pandemia. Lo ha dichiarato ieri l’agenzia americana National Institutes of Health confermando le indiscrezioni diffuse da il virologo statunitense Jesse Bloom del Centro di ricerca sul cancro Fred Hutchinson di Seattle. Decine di campioni di test sono stati eliminati da una banca dati internazionali usata per tracciare l’evoluzione dell’epidemia. I documenti, secondo Bloom, avrebbero potuto fornire informazioni cruciali sull’origine del virus e sulla sua circolazione. La sparizione dei dati non convalida necessariamente la teoria della fuga da laboratorio. Tuttavia, sembra avvalorare quanto suggerito da recenti studi: ovvero che la diffusione della malattia in Cina precede i primi casi individuati a Wuhan. La scoperta riaccende le polemiche sulla scarsa trasparenza mantenuta dal governo cinese. Un punto su cui pare far luce una recente inchiesta del Washington Post, secondo cui all’interno dell’Istituto di virologia di Wuhan sarebbero stati condotti progetti e dibattiti coperti dal segreto di Stato cinese. Un tale livello di segretezza, sottolinea il quotidiano, può contribuire a spiegare come mai le indagini sull’origine del Covid-19 abbiano fatto così poca strada. [fonte FT, Wapo]
La Cina ricorre ai chip di seconda mano
Chip di seconda mano. Per ovviare alla carenza di semiconduttori, sono sempre di più le aziende cinesi a rifornirsi di circuiti integrati di seconda mano o difettosi, ma ancora utilizzabili normalmente. Un esperto intervistato dal Global Times spiega che alcuni paesi stranieri hanno requisiti più severi sui dispositivi elettronici che impongono la sostituzione dei chip dopo tre cinque anni, anche se funzionano ancora bene. Questi chip di scarto vengono importati in Cina come rifiuti elettronici e rimossi e rivenduti, mentre i chip difettosi finiscono direttamente nei mercati. Secondo l ‘Economic Observer il mercato dei chip di seconda mano – quasi inesistente fino al 2019 – è stato travolto dall’aumento della domanda, tanto che ormai il prezzo dei chip usati è quasi lo stesso di quelli nuovi. Fino a poco tempo fa era la metà. Secondo gli insider, potrebbe trattarsi di un fenomeno passeggero. Ma gli analisti americani confermano che le restrizioni sull’export introdotte da Trump e confermate da Biden stanno mettendo in difficoltà anche colossi come Taiwan Semiconductor Manufacturing Co (TSMC), United Microelectronics Corporation e SMIC: “un lungo processo di controllo” rende quasi impossibile importare nella Cina continentale macchinari per la produzione di chip da 22 nm e 28 nm, quelli meno avanzati ma necessari pertenere in vita molti settori, compreso l’automotive. [fonte GT, SCMP]
La propaganda cinese celebra la rivoluzione comunista. Ma si scorda le donne
Da giorni i media cinesi non fanno che accompagnare il countdown verso il centenario del partito con aneddoti storici sulle gesta degli eroi comunisti. Sixth Tone, pubblicazione della municipalità di Shanghai, si chiede che fine abbiano fatto le donne. L’esempio più eclatante è la serie tv in 32 episodi “The Age of Awakening” che racconta le gesta di personaggi storici come lo scrittore Lu Xun e i fondatori del Pcc Chen Duxiu e Li Dazhao, mentre le figure femminili rimangono sullo sfondo, ricoprendo un ruolo meramente ornamentale. Così l’educatrice femminista Ge Jianhao, pur avendo coltivato le proprie aspirazioni rivoluzionarie in Francia, viene rappresentata come una dimessa signora avanti con l’età, mentre Gao Junman è semplicemente la moglie di Chen Duxiu, sebbene abbia preso parte in prima persona alle attività rivoluzionarie del marito, compresa la fondazione della rivista d’avanguardia Gioventù Nuova. L’autore attribuisce l’incuranza al fatto che, come per la maggior parte delle pellicole patriottiche, a dirigere la produzione di “The Age of Awakening” sia stato un uomo. In Cina non mancano registe di talento, ma sono perlopiù ingaggiate nella rappresentazione di trame rosa e storie famigliari. [fonte Sixth Tone]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.