Tra il Covid e la minaccia di un decoupling, gli investimenti tra Cina e Stati uniti sono crollati ai minimi dal 2009. Lo rivela l’ultimo rapporto di Rhodium Group, realizzato in tandem con il National Committee on US-China Relations, secondo il quale nel 2020 gli investimenti bilaterali sono precipitati a quota 15,9 miliardi di dollari, meno di un quarto dei 70 miliardi di dollari riportati nel 2016, l’anno di maggior dinamismo tra le due sponde del Pacifico. Nello specifico, gli investimenti americani in Cina sono diminuiti di circa un terzo rispetto all’anno precedente, toccando la soglia degli 8,7 miliardi di dollari, la più bassa da 16 anni. Al contrario, mentre i capitali cinesi negli States sono aumentati da 900 milioni di dollari a 7,2 miliardi di dollari, la cifra investita corrisponde a una frazione degli oltre 45 miliardi di dollari destinati al mercato statunitense nel 2016. Stando allo studio, la maggior parte degli accordi – di dimensioni medio-piccole – hanno interessato il settore dei prodotti di consumo. Per parte cinese, la fetta più consistente è rappresentata dall’acquisizione da parte del gigante tecnologico Tencent di una quota di minoranza in Universal Music Group (valore da 3,4 miliardi di dollari ) e l’operazione di Harbin Pharmaceutical Group per rilevare GNC Holdings (700 milioni di dollari). Finora la linea politico-economica di Biden non sembra suggerire un allentamento delle tensioni con Pechino e le restrizioni sulle aziende cinesi imposte dalla precedente amministrazione sono ancora là. Proprio poche ore fa, durante una visita a uno stabilimento Ford in Michigan, Biden ha ribadito che il piano annunciato recentemente a sostegno delle infrastrutture è necessario per “vincere la concorrenza del 21esimo secolo” e “superare la Cina”. 174 miliardi di dollari saranno destinati all’industria dei veicoli elettrici, uno dei settori in cui il gigante asiatico sta puntando di più per raggiungere gli obiettivi ambientali. [fonte SCMP, white house]
Xiong’an, la strada è lunga
Doveva diventare la Shenzhen dell’era Xi Jinping, Invece, Xiong’an, il nuovo distretto lanciato nel 2017 a 130 km da Pechino per decongestionare la capitale cinese, non ha nulla del dinamismo economico della celebre metropoli del sud. Secondo un reportage del FT, la mega-stazione ferroviaria, una delle più grandi al mondo, resta in gran parte inutilizzata nonostante sia costata 4,7 miliardi di dollari, mentre i residenti lamentano l’incremento verticale dei prezzi delle abitazioni a causa di un’ondata di investimenti speculativi. In compenso la campagna green avviata per rendere la new area un esempio di “civiltà ecologica” ha indotto al trasferimento 4000 aziende, con conseguente perdita di posti di lavoro per la popolazione locale. Date le premesse non sembrano esserci i presupposti per rendere il progetto economicamente sostenibile. E, come altrove, la situazione debitoria del governo locale è già motivo di preoccupazione. Secondo la roadmap ufficiale, ci sono ancora due anni di tempo: Xiong’an dovrà essere completata entro il 2023. Ma per i più pessimisti il fallimento era già scritto. Laddove il successo di Shenzhen è stato deciso dal mercato, Xiong’an è un retaggio della pianificazione economica, di quell’approccio top-down che negli ultimi anni ha portato alla proliferazione di ghost town e “cattedrali nel deserto”. [fonte FT]
Hong Kong chiude l’ufficio di rappresentanza a Taiwan
L’ufficio di rappresentanza di Hong Kong a Taiwan ha interrotto le attività. Il motivo non è stato reso noto, ma le relazioni tra l’isola democratica e il governo della regione amministrativa speciale cinese sono in caduta libera dalle proteste del 2019. Il comunicato ufficiale chiarisce che la chiusura non è dovuta al Covid, lasciando intendere sia una misura di natura politica. Le avvisaglie c’erano tutte. Già lo scorso anno il personale taiwanese era stato chiamato a riconoscere il principio “una sola Cina” come condizione necessaria al rinnovo del visto. I rapporti bilaterali sono notevolmente peggiorati dopo che Xi Jinping ha minacciato una riunificazione tra le due Cina sul modello hongkonghese “un paese due sistemi”. Negli ultimi mesi diversi attivisti dell’ex colonia britannica hanno cercato di raggiungere l’ex Formosa per sfuggire alla campagna di arresti avviata in seguito all’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale. [fonte Reuters]
Cina: è polemica sul crollo dei divorzi
Con il calo demografico dietro l’angolo, il governo cinese le sta provando tutte per invogliare le coppie a sposarsi e fare più figli. Una delle decisioni più controverse è quella – inserita nel nuovo codice civile – che prevede 30 giorni di “pausa riflessione” prima di concedere il divorzio. Il provvedimento, diventato legge il 1 gennaio, dovrebbe contribuire a scongiurare le rotture affrettate e salvare i matrimoni, ma non ha mancato di suscitare qualche alzata di sopracciglio tra chi non ama la crescente ingerenza del governo nella propria vita privata e chi teme, invece, che la nuova misura metterà ancora più in difficoltà le vittime di violenze domestiche. Fatto sta che pare abbia funzionato. Secondo dati del ministero degli Affari civili, nei primi tre mesi dell’anno, il numero dei divorzi in Cina è sceso di oltre il 70% toccando quota 296.000 divorzi, in calo rispetto ai 1,05 milioni del trimestre precedente e ai 1,06 milioni dell’anno scorso. I numeri però non spiegano le motivazioni del calo e sul web sono in molti a lamentare le difficoltà tecniche riscontrate nel presentare domanda agli uffici competenti. Insomma, più che un ritorno di fiamma, pare che a salvare i matrimoni sia stata la burocrazia cinese. [fonte Guardian]
Huawei continua a sedurre i paesi emergenti
L’operazione Clean Network e le paternali di Washington non sembrano avuto alcuna presa sui paesi emergenti. Secondo uno studio del CSIS, dal 2006 all’aprile di quest’anno Huawei ha siglato 70 accordi in 41 paesi per la costruzione di infrastrutture cloud e la fornitura di servizi di e-government. La maggior parte degli stati coinvolti si trovano nell’Africa sub-sahariana, in Asia e in America Latina, e il 77% rientra nelle categorie dei paesi “non libero” o “parzialmente libero”. Fattore che lascia presumere un utilizzo non sempre virtuoso delle tecnologie acquisite. Secondo gli autori del report Jonathan Hillman e Maesea McCalpin, parecchi accordi sono stati siglati tra il 2018 e il 2020, segno che le pressioni esercitate dall’amministrazione Trump a livello internazionale non hanno avuto gli effetti sperati. [fonte FT]
Vietato parlare del mar cinese meridionale
Vietato parlare del mar cinese meridionale. L’ordine è arrivato lunedì direttamente da Rodrigo Duterte. Come spiegato l presidente filippino al gabinetto, quanto concerne le operazioni cinesi nella zona economica esclusiva delle Filippine andrà discusso rigorosamente a porte chiuse. Il diktat arriva dopo una lunga serie di commenti decisamente tranchant dei ministri degli Esteri e della Difesa in seguito al sospetto stazionamento di pescherecci cinesi nelle acque contese. Da tempo Manila accusa Pechino di utilizzare i pescatori come “milizie civili” per consolidare la propria presenza nel turbolento tratto di mare. Solo pochi giorni fa le autorità filippine hanno inviato una protesta formale contro la moratoria sulla pesca applicata da Pechino nel Mar cinese meridionale fino ad agosto. [fonte Reuters]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.