In Cina, non solo il matrimonio pare non essere affatto una priorità per le giovani donne, ma da settimane molti quotidiani riportano la notizia che le mogli cinesi sono sempre più infelici. Un’affermazione che pare enfatica ma che si avvale dei risultati di un sondaggio dello scorso anno: il 20% delle donne intervistate si sono pentite di essersi sposate, una percentuale in crescente aumento. Una signora di Shanghai ha scritto su un social che essersi sposata e aver fatto un figlio è stato l’errore più grande della propria vita.
L’affermazione è rappresentativa di un generale senso di insoddisfazione che nasce dalle difficoltà di dover coordinare la quasi totalità delle faccende domestiche e della cura dei figli con un lavoro a tempo pieno, un problema globale a cui si aggiungono una serie di elementi peculiari della società cinese.
Le donne sono ancora incaricate della competizione per l’istruzione dei figli, che nel paese è particolarmente feroce. Inoltre, risentono della forte pressione di un mercato del lavoro che costringe le nuove generazioni a posticipare di molto i progetti legati alla famiglia e che, inoltre, risente di palesi discriminazioni di genere. Lo scorso anno, complice la pandemia, il costante calo di matrimoni ha toccato il picco dal 1982. E da anni i divorzi aumentano. Secondo i dati della Corte Suprema, più del 73% delle cause di divorzio ascoltate dai tribunali cinesi nel 2017 è stato presentato da donne.
A motivare la delusione nei confronti dell’unione matrimoniale, considerata ancora il fondamento della società cinese, non mancano i numerosi casi di violenza domestica, secondo quanto detto al South China Morning Post da Huang Yuqin, professore di sociologia alla East China University of Science and Technology di Shanghai. Tra marzo 2016, quando la Cina ha applicato la sua prima legge contro la violenza domestica, e la fine del 2019, almeno 942 persone sono morte come risultato diretto di aggressioni in ambito familiare, senza contare i casi non denunciati. La percentuale di vittime donne supera l’80%.
Come nel caso di Lhamo, donna blogger tibetana, morta per una violenta aggressione da parte del suo ex marito, che lo scorso 14 settembre le era piombato in casa dandole fuoco, la colpa ricade sul fallimento delle istituzioni. La giovane, vittima da tempo di violenza domestica, aveva richiesto più volte l’intervento della polizia, che si era rifiutata di prendere seri provvedimenti. Malgrado la polizia sia tenuta a indagare a favore delle vittime, casi di cronaca raccontano della riluttanza della loro riluttanza nel procedere con le denunce, aggiungendosi a una generale distorsione della narrazione a sfavore delle vittime.
Il giorno seguente la morte di Lhamo, Xi Jinping, in occasione di un’assemblea Onu, si era affrettato a dichiarare che la Cina è impegnata a eliminare la discriminazione e la violenza di genere. Ma una legge sul divorzio di qualche mese fa sembra procedere nella direzione opposta: dal 1° gennaio 2021 alle coppie intenzionate a separarsi è richiesto un «periodo di riflessione» della durata di un mese prima del divorzio. Sul web, oltre 600 milioni di utenti hanno criticato la decisione del governo, perché pone un ulteriore ostacolo alle vittime di violenza domestica per porre fine al matrimonio.
I social media, come di consueto, fanno da veicolo a riflessioni importanti, come quella sul peso dei lavori domestici. Secondo i dati della Banca Mondiale, in Cina sempre più donne scelgono di fare la casalinga a tempo pieno. La questione, che riguarda soprattutto donne istruite e piuttosto agiate, ha aperto la strada a considerazioni critiche nei confronti della logica diffusa che ritiene che le mogli debbano «sacrificare» la propria indipendenza e favorire la carriera del marito. Il problema è che spesso il carico familiare si rivela essere ben più duro e sfibrante di una professione regolamentata. Ma la differenza è che il lavoro domestico non è retribuito.
Di Vittoria Mazzieri*
**Vittoria Mazzieri, marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea che verte sul caso Jasic. Più volte in Cina sia per studio che per diletto, ha maturato negli anni una forte attrazione per gli sviluppi poco sereni dell’attivismo politico dal basso del “paese di mezzo”.
[Pubblicato su il manifesto]