Acqua d’oceano, acqua tra le case, acqua ovunque. E l’acqua porta spazzatura, rifiuti, disastri, e pensieri, storie, avventure e epica. Wu Ming-yi in Montagne e nuvole negli occhi (e/o, pp. 304, euro 18, traduzione dal cinese di Silvia Pozzi) racconta l’epica della resistenza individuale al cambiamento climatico, fenomeno che rapisce l’anima dei personaggi, portandoli a scelte che appaiono affiorare dalla profondità degli oceani. Sia essa una vicenda umana drammatica come quella di Alice, sia la tradizione di una popolazione, come quella che colpisce i secondogeniti degli Wayo Wayo, sia un’esistenza a rincorrere un posto dove stare come Haifay.
L’acqua è ovunque e accorcia il tempo dell’esistenza e del territorio fisico: ogni personaggio vive su un’isola, che spesso si muove di volontà propria solcando leggende e realtà; ogni personaggio è esso stesso un’isola, una zona mentale talvolta in balia delle tempeste, talvolta ripiegata nella calma apparente di onde trasparenti. Wu Ming-yi racconta le storie dei suoi personaggi muovendosi tra fantasia e durissima realtà: quella di un luogo, Taiwan, perseguitato dai cambiamenti climatici e con radici che affondano nella storia delle sue popolazioni indigene; una strenua resistenza contro l’uomo bianco nel pieno rispetto della natura, qualcosa da assecondare, da accarezzare e contrapporre ai soprusi umani.
Ursula Le Guin ha iscritto l’autore taiwanese all’interno di quel realismo magico sudamericano che ha poi trovato assonanze in altre parti del mondo. Wu Ming-yi ha però una sua originalità nel momento in cui le leggende degli indigeni di Taiwan ci riportano a una storia comune decisamente reale, quella del colonialismo non solo territoriale ma soprattutto culturale. A scardinare questo meccanismo è l’evoluzione delle tante storie del libro, verso una discesa corale nella cura di sé e del mondo circostante, garantita dalla capacità di mettersi in ascolto senza neppure conoscere la lingua delle altre isole che vanno a formare un arcipelago umano dal quale è difficile staccarsi, pagina dopo pagina, guarigione dopo guarigione.
Ogni personaggio vive in un’isola e sembra anch’esso un’isola. Siamo così soli in partenza?
Gli esseri umani sono animali sociali che formano una cultura davvero unica e si prendono cura dei feriti, dei deboli e dei disabili del gruppo. Ma è sempre molto difficile ottenere assistenza se si è feriti. Quando il cuore è lacerato ci sono diversi modi per superare il dolore, uno dei quali è fare come i paguri, andare alla ricerca di un guscio per proteggersi. Una parte di questo romanzo riguarda questo genere di situazione e penso che sia una circostanza nella quale tutti ci siamo trovati o ci potremo trovare.
La storia di Wayo Wayo è simile a una vera leggenda di Taiwan? A cosa si è ispirato?
L’isola di Wayo Wayo è un’entità culturale che ho immaginato sulla base di alcune opere antropologiche e sulla base della mia esperienza di vita a Taiwan e Orchid Island (un’isola vulcanica a sud di Taiwan, chiamata anche Pongso no Ta dalle popolazioni locali, ndr).
Molti personaggi sono indigeni di Taiwan. La loro cultura sembra fortemente rispettosa della natura, il contrario delle nostre città attuali. Come fronteggiare il cambiamento climatico, altro grande protagonista del libro?
Ci sono molti aborigeni sull’isola di Taiwan che hanno sofferto a causa della colonizzazione. I giapponesi li hanno attaccati e hanno spostato le loro case, poi il governo che si è ritirato dalla Cina durante la guerra ha sfruttato il disboscamento e danneggiato le risorse naturali. Di conseguenza, gli aborigeni di Taiwan hanno dato vita a un movimento per riconquistare la propria cultura negli anni ’80 e il loro modo di andare d’accordo con l’ambiente naturale è stato notato di nuovo. Tuttavia, la visione ambientale originaria di coesistere con lo spirito delle tradizioni culturali e della natura non è veramente applicabile alle società contemporanee e future. Perché si basa su una piccola popolazione e su una produzione tradizionale come fulcro dell’ambiente, che è diverso dallo sfondo della crisi che stiamo affrontando in questo momento. L’ecologista americano Edward Osbornbe Wilson una volta disse: «Al momento, ci sono due forze tecnologiche in competizione tra loro. Una è quella che distrugge l’ambiente e l’altra è quella che potrebbe salvarlo». Penso che in futuro, oltre a mantenere una visione etica simile a quella delle popolazioni indigene per quanto riguarda il rispetto della natura, dobbiamo continuare a lavorare sodo per sviluppare capacità scientifiche e tecnologiche per salvare l’ambiente.
A Wayo Wayo c’è una sorta di pianificazione famigliare, l’attivista parla esplicitamente di pianificazione per risolvere i problemi di povertà e sfruttamento delle risorse. Avendo la Cina come esempio, crede sia una soluzione possibile?
Ci sono molte pianificazioni di questo tipo nella cultura di diverse piccole tribù. A causa del territorio e del cibo limitati, queste ultime non possono permettersi troppa popolazione, quindi incoraggiano qualcosa di simile a quanto racconto nel libro. La «politica del figlio unico» che la Cina ha promosso è invece un atto di dominio da parte di un governo centralizzato realizzato indipendentemente dai sentimenti delle persone.
Le narrazioni delle minoranze sono molto simili, perché si basano sempre sul nesso tra resistenza e oppressione dei bianchi. Cosa ne pensa?
In effetti si tratta del prodotto di periodi storici, ma non può rimanere così per sempre. Prendiamo Taiwan come esempio. Attualmente la fiducia in se stessi dei popoli aborigeni e la cultura del rispetto per loro da parte dei popoli non indigeni si sono andate gradualmente affermando. L’aggiunta della cultura aborigena alla cultura di Taiwan è un fattore importante e affascinante per gli stessi taiwanesi. Nella fase successiva, credo che le narrazioni e le espressioni culturali dei popoli indigeni si sposteranno a un livello più profondo. Ad esempio, sarebbe molto interessante parlare della cultura della navigazione e della pesca degli indigeni taiwanesi e della cultura Han (l’etnia maggioritaria in Cina, ndr), che è invece basata sulla terra.
Il ritmo e alcune parti del libro ricordano Murakami. Le Guin ha parlato di realismo magico sudamericano. Ritrova qualcosa della sua scrittura in questi collegamenti?
Sono molto influenzato dalla letteratura aborigena e dalla letteratura mondiale. Ma se gli amati lettori italiani avranno l’opportunità di leggere gli altri miei lavori, scopriranno che il mio realismo magico arriva dalle montagne, dagli oceani e dalla storia dell’isola di Taiwan. Inoltre, sono molto ispirato da Haruki Murakami, ma gli elementi importanti nei miei romanzi provengono dalle scienze naturali e dalla cultura aborigena di Taiwan, quindi siamo essenzialmente diversi.
Quali sono gli autori che ama di più?
Questo elenco rischia di essere lungo, perché ogni scrittore mi attrae e mi ispira in modo diverso. Elencherò semplicemente cinque persone, anche se l’elenco effettivo dovrebbe essere dieci volte più lungo. Tra gli scrittori del vostro paese sento l’influenza di Dino Buzzati. Poi direi Olga Tokarczuk e Salman Rushdie, mentre tra gli scrittori americani mi affascinano Paul Auster e Anthony Doerr.
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.