Nonostante l’accelerata degli ultimi giorni, la campagna vaccinale cinese pare stia incontrando qualche problema. Il motivo pare vada attribuito alla decisione di limitare la distribuzione unicamente ai sieri “made in China”. La produzione nazionale fa fatica a sopperire l’intera popolazione, soprattutto considerando che 100 milioni di dosi sono state spedite all’estero nell’ambito della diplomazia sanitaria lanciata da Pechino per rilanciare la Belt and Road. Secondo fonti di Bloomberg, la carenza di vaccini ha spinto le autorità mediche a posticipare la seconda dose di richiamo fino a otto settimane, contro una media di 21-28 giorni prevista per la maggior parte dei vaccini prodotti in occidente. Entro l’estate il governo punta a vaccinare il 40% della popolazione, ma secondo persone a conoscenza delle politiche in materia, la copertura non sarà omogenea: “le megalopoli densamente popolate lungo la parte orientale e più sviluppata della Cina hanno la priorità, mentre le province occidentali remote e scarsamente abitate saranno lasciate più indietro”. [fonte Bloomberg]
Altre sette aziende cinesi nella blacklist del Commercio americano
Il dipartimento del Commercio americano ha inserito nella sua lista nera sette gruppi cinesi attivi nel settore dell’informatico considerati “potenziali minacce alla sicurezza nazionale”. Le aziende in questione sono coinvolte nella realizzazione di “supercomputer” utilizzati per attività militari e nella realizzazione di armi di distruzione di massa. “Le competenze di supercalcolo sono vitali per lo sviluppo di molte armi moderne e di sistemi di sicurezza nazionale, come le testate nucleari e le armi ipersoniche”, ha spiegato la segretaria al Commercio Gina Raimondo. “Il dipartimento userà tutti i suoi poteri per impedire alla Cina di utilizzare tecnologie Usa per sostenere tali sforzi destabilizzanti di modernizzazione militare”. Tianjin Phytium Information Technology, Shanghai High-Performance Integrated Circuit Design Center, Sunway Microelectronics, National Supercomputing Center Jinan, National Supercomputing Center Shenzhen, National Supercomputing Center Wuxi e National Supercomputing Center Zhengzhou vanno così ad affiancare Huawei Technologies, il colosso dei chip SMIC e DJI, inseriti nella blacklist da Donald Trump. Le aziende U.S. incluse nella Entity List rischiano drastiche limitazioni nell’approvvigionamento di componentistica statunitense. In Cina, dove si sperava che l’arrivo di Biden avrebbe sancito l’avvio di politiche commerciali più amichevoli, la notizia non è stata presa bene. “È come se le zanzare ci stessero pungendo. Ci hanno molestato per anni, quindi non ci importa di avere un altro morso”, commenta ai microfoni del GT Mei Xinyu, esperto affiliato al ministero del Commercio cinese. [fonte SCMP, Reuters]
Omicida latitante per trent’anni: 84 i funzionari puniti
Ben 84 funzionari della Mongolia interna risultano coinvolti in un caso di alto profilo che ha visto un uomo condannato a 15 anni di reclusione per omicidio sfuggire alla pena. I quadri in questione sono accusati di “cattiva gestione del partito, inosservanza dei doveri e perdita di controllo e supervisione, nonché di gravi violazioni legali e disciplinari e sospetti crimini”. 54 dei funzionari sono già stati sanzionati, di cui 10 incriminati formalmente e in attesa di processo. Altri 20 sono stati sottoposti a rimproveri ufficiali e altre misure punitive. Tutto è cominciato nel 1992, quando Batumenghe, un giovane di etnia mongola accoltellò a morte un suo ex compagno di scuola durante una discussione. L’anno successivo, un tribunale locale condannò l’allora 18enne a 15 anni di reclusione a tempo determinato con una sospensione di due anni dei suoi diritti politici, ma per ragioni mediche gli fu concessa la libertà condizionale. Grazie alla connivenza del personale carcerario e una serie di certificazioni false, Batumenghe riuscì a tornare al villaggio natale e a intraprendere indisturbato la carriera politica, ricoprendo vari incarichi a livello di villaggio. Il caso è stato riaperto soltanto nel 2017, dopo i ripetuti appelli della madre della vittima. Il fuggiasco ora dovrà fronteggiare altri 13 anni e sette mesi di prigione per violazione della cauzione. Per quanto eclatante, l’episodio ha dei precedenti nella regione autonoma. Solo lo scorso agosto altri 65 quadri erano stati puniti per aver lasciato a piede libero un uomo condannato a 15 anni di detenzione per omicidio. Da anni il legame tossico tra politica e gangli mafiosi è nel mirino dell’anticorruzione. Ma il problema è tutt’altro che risolto: recentemente è stata annunciata una nuova campagna contro il crimine della durata di tre anni. [fonte SCMP, Caixin]
Rendere omaggio alla Banda dei Quattro
Con l’approssimarsi del centenario del Pcc, il governo cinese sembra aver rimosso le restrizioni sulla commemorazione dei membri della Banda dei Quattro, la cricca composta da Jiang Qing, quarta e ultima moglie di Mao, e tre suoi associati, ossia Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan e Wang Hongwen, arrestati nel 1976 e processati ufficialmente per aver architettato un colpo di Stato. Una volta morto Mao, il partito attribuì a loro la responsabilità degli orrori della Rivoluzione culturale così da proteggere l’immagine del Grande Timoniere. Almeno fino al 2015, la tomba di Jiang Qing è stata presidiata dal personale della sicurezza rendendo impossibile renderle omaggio. Quest’anno qualcosa è cambiato. “Strane cose sono in corso nella capitale”, commentava su twitter lo storico Gao Falin alcuni giorni fa, ” un gran numero di persone sta rendendo omaggio alla tomba di Jiang Qing, e il governo sta permettendo che ciò accada”. La scena, immortalata in occasione del Qingming, la festa cinese dei morti, risulta tanto più insolita se si considera le restrizioni adottate per evitare l’accesso al sepolcro di Zhao Ziyang, l’ex segretario generale icona delle proteste di piazza Tian’anmen. Dall’inizio della presidenza Xi Jinping, il governo cinese ha mantenuto una certa ambiguità nei confronti dell’estrema sinistra. Da una parte si è fatto promotore di un revival neomaoista come collante sociale, dall’altra ha ridotto notevolmente la capacità delle frange più conservatrici di operare in autonomia. [fonte RFA]
Golpe Myanmar: l’industria tessile tra isettori più colpiti
Ci sono centinaia di morti e migliaia di feriti, certo. Ma le proteste contro il golpe e la repressione violenta dell’esercito hanno anche costi economici giganteschi per il Myanmar, fino a non molto tempo fa uno dei paesi del Sud-est asiatico a crescere più velocemente. La promettente industria tessile, già colpita dal Covid-19, è tra i settori più a rischio. Da una parte, lo sdegno popolare nei confronti del silenzio complice di Pechino si sta riversando contro gli impianti finanziati dai cinesi, che rappresentano almeno un terzo delle 600 fabbriche tessili presenti sul territorio nazionale. Dall’altra, ci sono le sanzioni occidentali e il disimpegno di marchi internazionali, come H&M e Primark. In ballo c’è un business che conta per per il 30% delle esportazioni birmane e impiega 700.000 persone. Secondo Fitch Solutions, il paese asiatico si avvia verso il default. Uno scenario che getta tinte fosche sull’intera regione. Come spiega il Nikkei Asian Review, la crisi birmana non solo tiene in ostaggio gli investimenti di Cina, Singapore e Giappone, tra i player stranieri più attivi in Myanmar. L’estensione delle violenze fino alle frontiere orientali rende più minaccioso lo scenario di un’emergenza umanitaria oltre il confine poroso con Thailandia e Cina. Da un punto di vista politico, il collasso del Myanmar metterebbe in crisi il funzionamento dell’Asean – l’associazione che riunisce 10 nazioni del Sud-est asiatico – con ripercussioni tanto sulle dinamiche interne quanto sulle relazioni con i partner internazionali. Questo spiega l’insistenza con cui Malesia, Indonesia e Brunei (presidente di turno dell’Asean) spingono per una soluzione diplomatica. Non è ancora chiaro quando, ma Jakarta dovrebbe ospitare prossimamente un vertice speciale con il placet di Pechino. In una recente analisi, Stefano Ruzza del Torino World Affair Institute spiega che tre fattori potrebbero aver spinto il Tatmadaw a compiere il colpo di stato a tre concause: 1) il sistema elettorale; 2) il processo di pace; e 3) la nomina di un nuovo comandante in capo a seguito dell’avvicinarsi del pensionamento di Min Aung Hlaing. [fonte Reuters, NIKKEI, TWAI]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.