Sulla vicenda delle pallottole della Cheddite Italy srl trovate in Myanmar nel teatro degli scontri tra manifestanti e militari, un gruppo di lavoro appena formatosi (Italia-Birmania, Rete Disarmo, Amnesty Italia, Opal, Atlante delle guerre) ha incrociato una serie di nuove prove fotografiche e documentali.
Tra queste, salta fuori il nome di un’azienda turca, la Zsr Patlayici Sanayi A.S., nome già apparso in un dossier di Amnesty di alcuni giorni fa in cui si spiegava che questa ditta di Karesi, provincia anatolica di Balikesir tra Istanbul e Smirne, «utilizza cartucce dell’azienda italo-francese Cheddite», mentre foto e video raccolti da AI in Myanmar «mostrano che la polizia (birmana, ndr) ha accesso ad armi tradizionali tra cui pistole al peperoncino e fucili caricati con proiettili di gomma prodotti dall’azienda turca».
PROIETTILI che possono comunque essere caricati anche a pallettoni. La Turchia dunque esporta in Myanmar e non solo munizioni. Come spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal), «da un’attenta analisi del registro del commercio internazionale delle Nazioni unite, Comtrade, risultano nel 2014 diverse forniture di fucili e munizioni dalla Turchia al Myanmar».
Nello specifico, spiega il ricercatore, «si tratta di 7.177 tra fucili di tipo sportivo o da caccia per un valore di 1.452.625 dollari con in aggiunta 2.250 ‘parti e accessori’ e di 46mila munizioni del valore di 223.528 dollari». Non si riscontrano però negli anni successivi esportazioni di simili armi e munizioni «ma questo – aggiunge Beretta – potrebbe dipendere anche dal mancato invio di informazioni da parte degli organi competenti turchi al registro internazionale dell’Onu».
COSA FARÀ LA UE. È uno dei tanti temi che si aggiungono a quello ancora più massiccio delle sanzioni, che la Ue dovrebbe decidere lunedì prossimo. Ma si teme che la montagna partorisca un topolino.
«Abbiamo scritto all’Alto rappresentante comunitario Josep Borrell – dice Cecilia Brighi di Italia-Birmania – per ricordargli che le parole sono benvenute, ma del tutto insufficienti di fronte ai crimini della giunta. Abbiamo chiesto che la Ue adotti sanzioni contro tutti gli interessi finanziari ed economici dei componenti dello State Administrative Council (la giunta birmana, ndr), chiedendo alle aziende presenti in Myanmar di sospendere qualsiasi rapporto con le società legate al regime».
Richiesta da fare anche a grosse aziende italiane come Eni (energia), SiaeMic (soluzioni di Rete), Danieli (siderurgia), ma anche a società più piccole come nel caso della SecurCube Srl (informatica forense). L’azienda trevigiana (cinque dipendenti) è finita nel mirino del gruppo di difesa dei diritti Justice for Myanmar per presunta vendita di strumenti digitali al Myanmar, che ora potrebbero essere impiegati dalla giunta nella repressione.
La risposta di SecurCube resta invariata: «Non abbiamo mai venduto direttamente niente al governo o ad agenzie che lavorano in Myanmar», chiarisce Nicola Chemello, presidente del Consiglio di amministrazione. Il problema è che dai documenti visti da il manifesto, la SecurCube e il suo BTS Tracker figurano tra le voci del bilancio di Stato per il biennio 2019-2020, in un lotto di altri 11 diversi dispositivi hardware dal costo stimato in 250mila dollari.
Come potrebbero allora essere arrivati in Myanmar apparecchi italiani se l’azienda smentisce di aver avuto mai a che fare con le istituzioni birmane? Tramite aziende terze, loro distributori ufficiali, che compaiono già solo cercando in Rete. «Sì, semmai è arrivato tramite terzi – ammette Chemello – perché abbiamo una decina di rivenditori in giro per il mondo… In altre parole, non c’è stata alcuna vendita diretta».
Soggetti terzi presenti anche in Asia, ma a suo dire «non in Myanmar», e che con il loro benestare possono mettere sul mercato prodotti SecurCube.
IL CASO SECURCUBE. È bene precisare che la vendita in sé non ha nulla di illegale: negli anni in questione, il governo era ancora guidato da Aung San Suu Kyi: «Allora – precisa SecurCube – non c’era nessun vincolo che ci avrebbe impedito di vendere». Ma la questione è anche un’altra: gli strumenti tecnologici su cui può ora fare affidamento la giunta.
Il BTS Tracker non è un dispositivo per le intercettazioni: «Non facciamo sicurezza, siamo una piccola azienda che fa informatica forense. I nostri prodotti aiutano a fare analisi, ma i dati bisogna già averli. Senza, non se ne fa niente».
E qui sta forse la preoccupazione degli attivisti dei diritti umani birmani. Perché se in uno Stato democratico, servizi segreti a parte, i dati devi chiederli ai gestori telefonici o comunque ottenerli su autorizzazione della magistratura, in un regime cambia tutto. Sul sito internet della SecurCube, il BTS Tracker viene effettivamente presentato come un dispositivo che agisce «non intercettando la comunicazione, ma definendo l’ambiente mobile» nella quale avviene.
Ma così facendo «individua uno smartphone con maggiore precisione», avallando «i tuoi sospetti». Il tutto grazie a un apparecchio grande poco più di un pacchetto di sigarette, da poter tenere in tasca e usare sul campo all’occorrenza. In conclusione, sulla base dei prodotti che sviluppa, la SecurCube non è certo la milanese Hacking Team che realizza software offensivi di intrusione e sorveglianza, vendendoli a governi e intelligence di tutto il mondo. Anche di Paesi opachi, come Sudan, Bahrein e Arabia saudita (come dimostrato nel 2015 dopo un attacco informatico all’azienda).
Ma è pur vero che anche i prodotti SecurCube, sulla carta forensi, nelle mani di un regime possono servire a raccogliere prove o peggio ancora a catturare attivisti e oppositori. Infine, la Hacking Team, in seguito a quello scandalo affermò di essere in grado di poter disabilitare i software distribuiti in caso di uso non etico. La SecurCube, per ora, non ha invece preso pubblicamente le distanze dal sanguinario regime birmano.