Uno sciopero generale di almeno dieci giorni che da domani dovrebbe bloccare di nuovo il Myanmar. E un coprifuoco esteso di 24 ore al giorno deciso dalla giunta da lunedi per diverse settimane proprio per evitare che la protesta scenda di nuovo nelle piazze. Sono queste le notizie che arrivano da un Paese travolto il 1 febbraio da un colpo di Stato militare, totalmente isolato sul piano internazionale, e vede crescere giorno dopo giorno uno dei più vasti movimenti di disobbedienza civile pacifica (Cdm) che la storia recente ricordi e che sembra essere l’evoluzione moderna del movimento indiano degli anni Quaranta, che fece uscire di scena una potenza del peso della corona britannica. Le avvisaglie di quella che si annuncia come una settimana difficilissima arrivano dall’assalto ai pochi negozi aperti per fare provviste e dalle colonne di automezzi militari che arrivano a Yangon per un dispiegamento di soldati senza precedenti.
La sensazione intanto, dicono le nostre fonti in Myanmar, è che il Comitato clandestino del nuovo parlamento eletto l’8 di novembre, in sostanza la Lega per la democrazia di Aung San Suu Kyi, abbia acquistato sempre più legittimità e consenso, maturando una capacita di leadership sempre più riconosciuta: che passa – nel chiedere la fine della giunta e la liberazione dei detenuti – per la nomina di ministri ombra, l’invito a smettere momentaneamente di pagare le tasse e una decisa presa di posizione contro la Costituzione del 2008 (voluta dai militari e che dà loro base legale – ancorché contestata nell’applicazione non conforme del dettato – al golpe. Una scelta, che auspica uno Stato federale e che, ci viene fatto notare, non solo contesta la Carta in ma sembra voler rispondere a quei gruppi politici e armati delle periferie regionali che non l’hanno mai riconosciuta. Una corsa a un consenso sempre più esteso contro un potere che si regge solo sul terrore e sull’uso delle armi anche ieri protagoniste della giornata.
La gente è infatti tornata in piazza anche sabato sfidando pallottole, idranti, lacrimogeni e botte mentre alla riunione a porte chiuse del Consiglio di sicurezza a New York l’inviata speciale Onu Christine Schraner Burgener si rivolgeva ai 15 membri con queste parole “Per quanto ancora possiamo permettere ai militari birmani di farla franca?”. Ma se la diplomazia internazionale, rallentata dai distinguo russi e cinesi e da una discussione dove si scontrano anche le logiche dei blocchi, partorisce uno scontato topolino, il Cdm continua imperterrito. Ricorrendo a ogni singolo stratagemma per fermare i militari: gettando in terra per esempio le immagini del generale Min Aung Hlaing (capo giunta) e dunque costringendo i soldati a calpestarle, un gesto che significa colpire con la parte più impura del corpo – la pianta del piede – una determinata persona. E ancora, i longhi delle donne – le larghe gonne birmane – appese lungo le strade: se un uomo vi passa sotto, dice la tradizione, perde il suo potere maschile. Gesti che dicono di una creatività rivoluzionaria di cui le donne sono protagoniste: un quarto degli arrestati (oltre 1700) sono donne, che sarebbero state sottoposte a violenze fisiche e verbali, in un’agonia condivisa con ormai decine di vittime e centinaia di feriti.
Accanto a donne, uomini e giovani arrivano intanto sempre più monaci (ieri anche in corteo con un gruppo di anarchici birmani!) mentre ha finalmente preso posizione anche Sitagu Sayadaw, monaco anziano dello Shwe Kyin, il secondo ordine monastico per importanza in Myanmar. Dopo un lungo imbarazzante silenzio l’84enne, preso di mora dai social, ha unito la sua voce a quella di altri otto monaci anziani del sante figure del suo ordine per chiedere ai militari di fermarsi. Quanto al generale Min Aung Hlaing, è nota la sua amicizia molto stretta con un altro monaco, U Kovida, figura controversa ma tenuto in gran conto dal Tatmadaw (l’esercito), che non si rifà propriamente al buddismo Theravada, la scuola più antica e diffusa in Myanmar, ma alle pratiche del buddismo Ari, legato ai culti animisti e a quello dei Nat, spiriti della tradizione popolare di probabile derivazione pre-buddista. La voce sempre più diffusa è che sia Kovida la figura spirituale di riferimento e che sarebbe in parte proprio lui a indirizzare la tattica della repressione.
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]