Un trittico giappo-cino-coreano “orribilmente poetico”: così è stato definito l’insieme di episodi horror-splatter firmati da Takashi Miike, Fruit Chan e Park Chan-wook che appaiono nello spietato capolavoro cinematografico di Three…Extremes.
In Dumplings, un’ex diva del cinema si rivolge a Mei, un’ultra-sessantenne dall’aspetto di una giovinetta, i cui miracolosi ravioli combattono l’invecchiamento operando contro le leggi della natura; tuttavia, i suoi fatidici gnocchi sono ripieni di feti umani, nonché di aborti ricavati dagli scarti ospedalieri: una vera e propria agghiacciante ricetta di ringiovanimento. A fianco dell’incredibile Fruit Chan vi è Park Chan-wook con Cut, il quale intesse una claustrofobica trama di vendetta e di torture in cui le dita delle mani sono le prime a saltare via. L’ultimo episodio è di Takashi Miike: in Box, un’autrice afflitta dal blocco dello scrittore deve fare i conti con i traumatici ricordi della sua infanzia, i quali divengono una crudele realtà.
Presentato alla 61° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 2004, Three… Extremes mette in scena episodi raccapriccianti e scabrosi, ma dai significati impliciti estremamente allusivi: il film di Park Chan-wook gioca sui classici sentimenti di odio e di invidia, nonché sull’ossessione della fama che porta spesso allo smarrimento del sé e alla perdita della bontà umana. Takashi Miike, dal suo canto, ammutolisce il pubblico con la messa in scena degli angoscianti incubi del passato, i quali persistono nel tormentare la debole memoria del presente.
Tuttavia, è Dumplings quello che ha ottenuto più successo agli occhi del pubblico per via della macabra rappresentazione a livello scenico dei futili tormenti moderni, quali la spasmodica ricerca di gloria e l’ossessione per la bellezza. Tuttavia, la riflessione di Fruit Chan non si limita a traslare sullo schermo le classiche “paranoie contemporanee”, al contrario, il regista ha in mente una trama ben più profonda: difatti, attraverso la rappresentazione fisionomica di Hong Kong come “microcosmo del capitalismo” dalla bio-politica sempre più globalizzata e controversa, Fruit Chan recupera l’annosa denuncia al “cannibalismo” della società asiatica, tema su cui lo stesso Lu Xun, padre della lingua e letteratura cinese moderna, si soffermò per tutto l’arco della sua vita avanzando critiche all’oscurantismo della cultura tradizionale cinese, tuttora ereditata dalla RPC, la quale persiste nel disseminare una narrazione socio-culturale anti-filantropica. Dumplings, infatti, può essere inteso come una rappresentazione scenica politicizzata della storia cinese e delle sue dinamiche culturali, tesa a rompere il silenzio su certe questioni che sembrano essere sempre all’ordine del giorno: all’interno di questo contesto, la violenza, traslata nell’orribile ed esecrabile affare consumistico degli aborti, deve essere letta come una pratica “anormale” all’interno della “normalità”, dove è chiaro che Fruit Chan voglia problematizzare certi tabù sociali tramite una satira beffarda e irrisoria della millenaria cultura cinese.
Da questo punto di vista, se gli intellettuali del Movimento del Quattro Maggio del primo Novecento portarono avanti un discorso culturale iconoclasta verso la tradizione cinese, l’opera sardonica di Fruit Chan deve essere inquadrata all’interno delle attuali dinamiche capitalistiche dell’era della modernizzazione cinese, che, tuttavia, è ancora restia ad abbracciare una radicale opposizione nei confronti di certe pratiche disumanizzanti e di secolari superstizioni: come ha sostenuto Ackbar Abbas, infatti, “la negatività, che costituisce la base politica del cinema di Hong Kong, è correlata alla natura problematica di un immaginario sociale capitalistico in cui dominano esclusivamente gli eccessi”, dove i temi della “vittimizzazione” e della pratica cannibalistica proposti da Fruit Chan devono essere letti come una “schiavizzazione psicologica”, più o meno inconscia, della Cina moderna, dove il discorso economico-utilitaristico presenta dei risvolti psicopatici.
All’interno di questo quadro, oltre a palesare le nocive conseguenze degli eccessi dell’economia di mercato, il lungimirante regista di Hong Kong induce gli spettatori a riflettere su certe contraddizioni storiche della RPC, nonché sulla narrativa della politica del figlio unico: nel film, infatti, dopo aver nutrito l’ex diva con i suoi fatali gnocchi, Mei canta allegramente una canzone di epoca maoista che, simbolicamente, decanta il passato rivoluzionario socialista; tuttavia, la rievocazione di Mao risulta a dir poco “spettrale”, se non contraddittoria, se si pensa alla difesa da parte di Mei della pratica dell’aborto direttamente correlata alle operazioni di sterilizzazione di massa e di aborti forzati imposti con la politica del figlio unico, la quale deformò e storpiò la retorica socialista maoista di “operare per il bene delle masse”. Da questo punto di vista, se si analizza la figura di Mei, si può affermare che Fruit Chan annulli totalmente la “sensibilità” femminile a partire dal ritratto di una nuova tipologia di donna piegata alle necessità ultramoderne del mantenimento della “bellezza” e del potenziale della seduzione, e che per di più, per rivendicare il proprio posto nella società, ricorre alla pratica della “mercificazione” dei feti che, metaforicamente, sta a rappresentare la “mutilazione” e la “vendita” di sé stessa.
Analogamente, il problema della mercificazione viene traslato in quello della prostituzione in Durian, Durian (2000), dove la prostituita cinese Yan, che lavora ad Hong Kong, è vittima di un capitalismo che specula sulla prostituzione in termini di “vendita della dignità umana”, una dignità annientata da quei precetti patriarcali tanto cari alla Cina. Di nuovo il tema dell’oppressione, quindi, dove la moralità e il sentimentalismo vengono spazzati via ancora una volta dalle leggi della sopravvivenza all’interno di un ordine sociale in cui la classe operaia urbana di Hong Kong sperimenta l’emarginazione sociale, nonché la violenza come elemento costitutivo delle relazioni sociali moderne, prive di qualsivoglia leggibilità morale.
Tale configurazione culturale di Hong Kong, come spazio soggetto alla retorica di “un paese due sistemi”, deriva dall’impossibilità, difatti, di sottomettersi all’attuale recupero nativista cinese, così come in passato venne a mancare la sottomissione al colonialismo britannico. Se, quindi, ci si sofferma sul concetto di incontro-scontro tra localismo e globalismo, che fa sì che oggi Hong Kong venga intesa come un ex-spazio coloniale suscettibile alle implicazioni di “confini” e alla costruzione culturale dello Stato-nazione cinese, allora Dumplings può essere inteso come una traslazione su schermo dell’identità “confusa e indefinita” di Hong Kong che deriva dalla stessa inconciliabilità tra il passato inglese e il presente cinese, la quale fa sì che l’immaginario socio-politico dell’isola sia afflitto da una “sovrapposizione” del coloniale e del post-coloniale. Di conseguenza, la realtà politica di Hong Kong non può che essere intesa in modo “astratto” a causa della sua stessa ambiguità nazionale, dove il “macabro” palesato in Dumplings è teso a raffigurare una “società senza padre” che si articola sotto il rifiuto della “nostalgia coloniale”, nonché di quel “colonialismo” interno che la Cina sta tuttora portando avanti nei confronti di Hong Kong, il cui “estraniamento” fa sì che, per dirla con Camus, Hong Kong sia una “straniera” nello spazio della terraferma.
È così che Fruit Chan mette in scena la cinica logica della società cinese post-moderna palesando il suo intransigente criticismo per mezzo della raffigurazione su schermo degli effetti del dominio logo-centrico della Cina attraverso una narrativa cinematografica che insiste sulla corporeità e sull’oppressione e che intesse trame “ansiolitiche” volte a mettere in scena questioni sociopolitiche tuttora irrisolte, dimostrando al suo pubblico come le leggi del darwinismo, in Cina, adesso sono da intendersi all’interno di un corrosivo contesto di economia di mercato dove tutti, indiscriminatamente, sono vittime, avvolti o dalla sfoglia di un raviolo, o dai dettami, invisibili ma pervasivi, delle sadiche leggi dell’autoritarismo politico e del capitalismo.
di Valentina Consoli
*Laureanda presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nel corso di laurea magistrale in Lingue e civiltà dell’Asia e dell’Africa mediterranea, curriculum specializzato sulla Cina. Attualmente sto lavorando come tirocinante per la rivista Cina in Italia e come traduttrice di testi di letteratura cinese