Il 17mo giorno della protesta birmana inizia all’insegna di una sequenza di numeri: 22222, i «5-2». Si riferisce a ieri, 22 febbraio 2021, in cui compaiono 5 numeri 2 ma anche a quel 8888 (8 agosto 1988) in cui le piazze birmane si riempirono di una rivolta purtroppo finita male e che diede origine a quella «Generazione 88» che adesso fa da modello alla disobbedienza civile di queste ore.
IL NUMERO SIMBOLICO, il rimando storico, la strana magia dei numeri han fatto di ieri la manifestazione più straordinaria da che il 1 febbraio una giunta di militari ha preso il potere in Myanmar. Si salda con le ormai strafamose tre dita alzate, con gruppi punk come i Rebel Riot che postano sui social, sempre in grande attività, canzoni di protesta. In piazza ci sono centinaia di migliaia di persone a Yangon, Mandalay, Naypyidaw – solo per citare le città più importanti – nella più grande prova di forza dal 1 febbraio e dopo già quattro morti e centinaia di arresti. Sono milioni in piazza in tutto il Paese.
I negozi sono chiusi senza eccezione e nonostante le minacce della giunta (chi disobbedisce rischia la vita, ha detto la Tv legata ai militari Mrtv che Facebook ha subito oscurato) la gente non molla e sembra non temere di scontrarsi (pacificamente) con un gruppo di militari isolato e in difficoltà che cerca di contenere la protesta senza (troppo) sparare e che si limita ad arrestare senza nemmeno calcare la mano, anche se ieri gli arresti sarebbero stati comunque un discreto numero (tra il settembre e il novembre del 1973, per fare un esempio, furono incarcerate in Cile dalla giunta Pinochet nello stadio di Santiago circa 40mila persone nell’arco di meno di tre mesi!).
LE DICHIARAZIONI di appoggio alla protesta si susseguono in tutto il mondo e manifestazioni di solidarietà si segnalano in altri Paesi del Sudest asiatico mentre la Cina, sempre più in imbarazzo, cerca di prendere le distanze da quanto avviene pur se continua a ripetere il mantra dell’ «affare interno».
Non è più il 1973 cileno e nemmeno il 1988 birmano: telefonini, social, macchine fotografiche in mano ai manifestanti e gli occhi del mondo, per una volta, puntati senza tregua sulla «Rivoluzione 5-2».
LE IMMAGINI DIFFUSE da tutto il Paese via Twitter sono impressionanti: un mare di folla diffuso in più parti delle aree urbane. Non riusciamo a dire delle periferie dove in passato la protesta si è diffusa per poi in parte rientrare per l’evidente pressione dei militari su cittadine e villaggi. Ma lo sciopero nazionale è riuscito. Il Paese è bloccato. La giunta non sembra sapere che pesci prendere e se sta aspettando che la ribellione si attenui, si sbaglia: «Non vogliamo tornare in cucina fin che ci siete voi», è lo slogan di un gruppo di collaboratrici domestiche.
Tutti i segmenti sociali sono in piazza: medici e paramedici, impiegati, burocrati, operai, lavoratori informali. Ci sono sindacati, organizzazioni sociali, ong, corporazioni, categorie. La giunta non va giù nemmeno alla Confindustria locale il cui business è bloccato e nemmeno alle gradi fabbriche che qui hanno investito, da Coca Cola a Karlsberg.
LA PRESENZA TRA LA FOLLA di monaci buddisti intanto – inizialmente un po’ in sordina – aumenta e cosi quella di altri appartenenti a credi religiosi. Bhamo Sayadaw Bhaddanta Kumara, il monaco che rappresenta il vertice della comunità buddista birmana aveva già mercoledì scorso rilanciato una proposta di negoziato cui è seguita l’altro ieri una nuova richiesta dalla gerarchia cattolica, un «appello alla riconciliazione attraverso il dialogo», lanciato dalla Conferenza episcopale del Myanmar in un documento firmato da tutti i presuli delle 16 diocesi birmane.
L’Onu, attraverso il suo segretario generale, rincalza la dose. Antonio Guterres, alla vigilia della protesta, invita i militari del Myanmar «a fermare immediatamente la repressione…Rilasciate i prigionieri. Ponete fine alla violenza. Rispettate i diritti umani e la volontà del popolo espressa nelle ultime elezioni», dice. Gli fa eco Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Myanmar: «Diamo un avvertimento alla giunta: a differenza del 1988, le azioni delle forze di sicurezza vengono registrate e voi sarete ritenuti responsabili».
La famigerata 33esima, dai Rohingya alla piazza
I responsabili della morte di Wai Yan Tun, 16 anni, e di Thet Naing Win, 36, due delle 4 vittime registrate fino in Myanmar, potrebbero essere i membri di una famigerata divisione di fanteria leggera, la 33esima.
La più attiva, insieme alla 99esima, nel pogrom che nell’estate del 2017 ha costretto alla fuga dallo Stato del Rakhine più di 700.000 Rohingya, oltre che, più in generale, nelle campagne di contro-insurrezione contro le minoranze etniche del Paese.
Per ora non è certo che ad aver aperto il fuoco siano stati proprio i membri della 33esima, ma è sicuro che siano intervenuti nel cantiere navale di Yadanarbon, sulla Strand road di Mandalay, secondo quanto dichiarato da Tom Andrews, lo Special Rapporteur dell’Onu sui diritti umani nel Myanmar.
I Rohingya sanno bene, dunque, con chi hanno a che fare oggi i civili birmani che contestano il colpo di Stato militare. Al potere c’è infatti quel generale Min Aung Hlaing che nell’estate del 2017 non si faceva scrupolo di dire apertamente – ha ricordato nei giorni scorsi Ro Nay San Lwin, cofondatore della Free Rohingya Coalition – che occorresse ripulire i villaggi birmani dai Rohingya, «un lavoro lasciato incompiuto» da troppi decenni e che andava finito.
Grazie proprio alla 33esima e alla 99esima divisione: il loro arrivo, nell’agosto del 2017, all’aeroporto di Sittwe e sulla costa, su barche stracolme di soldati d’elite, avrebbe segnato una svolta nel tentato genocidio, secondo una ricostruzione della Reuters di 2 anni fa. Tre le cittadine birmane in cui le operazioni della 33esia divisione sono state particolarmente cruente: Gu Dar Pyin, Tula Toli e Inn Din. Omicidi sommari, stupri, villaggi alle fiamme. Tanto da portare gli Stati Uniti, nell’agosto successivo, a prevedere sanzioni non solo per i comandanti, ma per l’intera divisione. In quel periodo, i Rohingya superstiti vivevano già da un anno oltreconfine, dopo aver attraversato il fiume Naf ed essere entrati in Bangladesh.
Per loro, il colpo di Stato in Myanmar e la repressione che ne è seguita svelano una brutalità subita a lungo, lontano dai riflettori. E rende più lontano quel «rimpatrio sicuro, volontario, sostenibile e dignitoso» che l’Onu continua a invocare.
Il governo di Dacca, alle prese con la difficile gestione di più di 1 milione di profughi Rohingya, spera che le autorità militari birmane approfittino della situazione per agevolare il rimpatrio, «come già fatto nel 1978 e 1992», ha sostenuto il ministro degli Esteri, Abdul Momen.
Ma né ora né nei prossimi mesi ci saranno le condizioni per il rimpatrio. Il rischio, per Dacca, semmai è il contrario: nuovi arrivi dal Myanmar. Per questo ha intensificato i controlli sul confine e accelerato anche i trasferimenti dei Rohingya dai campi profughi del distretto di Cox Bazar a Bashan char. Un isolotto nel Golfo del Bengala, emerso dalle acque negli ultimi 20 anni, vulnerabile a cicloni e cambiamenti climatici, ma sul quale Dacca intende trasferire fino a 100.000 Rohingya.
Per i profughi, le alternative sono poche: il rimpatrio nello Stato del Rakhine è impossibile, per ora; la vita nei campi sovraffollati del Bangladesh, un vero e proprio stallo, senza prospettive; il trasferimento a Bashar char, un confinamento. Rimangono i tentativi di fuga: ieri le Nazioni Uniti hanno lanciato un appello urgente per recuperare una barca nel mare delle Andamane. A bordo, decine di Rohingya, alcuni dei quali morti, gli altri senza cibo né acqua, il motore in panne. Fuggivano dai campi di Cox Bazar e Teknaf, alla ricerca di un’altra casa.
Di Emanuele Giordana e Giuliano Battiston
[Pubblicato su il manifesto]