Mentre la piazza è entrata ieri nel sesto giorno consecutivo di protesta e ha celebrato la prima vittima del neo regime militare, colpita alla testa a Naypyidaw da un proiettile, un parlamento autoproclamato – basato sul voto di novembre e ovviamente clandestino – ha rinominato Daw Aung San Suu Kyi per un secondo mandato come Consigliere di Stato, sfidando la giunta che ha preso il potere il 1 febbraio.
È LA LEGA NAZIONALE per la democrazia (Lnd) che, sebbene abbia i suoi leader in carcere, riconsegna il Paese alla Lady. Un parlamento de facto per una premier de facto, come DASSK (l’acronimo che la identifica) viene sempre chiamata poiché la Costituzione (voluta dai militari nel 2008) le impedisce di adire alle più alte cariche dello Stato. Nel contempo, secondo il Myanmar Times, si starebbe formando un team negoziale dell’opposizione al golpe, segnale interessante anche se non si sa se abbia già una controparte.
La gente torna dunque in piazza con la prima martire, una giovane di vent’anni di cui avevamo purtroppo anticipato ieri il decesso, confermatoci martedi da fonti locali: Myat Thet Thet Khaing, che oggi avrebbe compiuto 21 anni, è stata colpita da un proiettile alla testa come ha confermato al magazine birmano Irrawaddy un medico di Naypyitaw che ha chiesto l’anonimato: confermandone la morte cerebrale, ha spiegato che il proiettile ha perforato il casco che indossava e si è conficcato nella testa da cui non poteva essere rimosso.
I MILITARI HANNO TENTATO il suo trasferimento nelle loro strutture ma i medici l’hanno impedito. Aveva votato per la prima volta: Lega sicuramente, visto che portava una camicia rossa, colore della Lnd. Il silenzio attorno alla notizia è durato un giorno forse per un comprensibile riserbo per via che la «morte cerebrale» non è ancora la morte di ogni cellula vitale. Ma quella giovane donna, «viva» finché attaccata a una macchina e con «la cessazione irreversibile di tutte le attività del cervello», è a tutti gli effetti la prima vittima di un regime brutale che non ha esitato a sparare ad altezza d’uomo.
La sua immagine sanguinante, virale sui social tra le braccia di chi le prestava il primo soccorso, era ieri già un manifesto esibito nelle manifestazioni che hanno interessato, più ancora che Yangon, soprattutto Naypyidaw e Mandalay. Con lei altri erano stati colpiti, di cui uno al petto in gravi condizioni. In tutto il Paese proseguono intanto gli arresti dei manifestanti ma anche il loro rilascio (80 su 100 ieri a Mandalay per esempio) in un tira e molla ambiguo mentre aumenta l’attività delle squadracce legate al partito dei militari, continuano le defezioni di poliziotti e si estende la disobbedienza civile che ha già paralizzato anche il settore bancario. Tutta la schiera di funzionari della burocrazia pubblica è in fermento: il Consiglio (la giunta) minaccia o blandisce con bonus e aumenti salariali.
INTANTO L’UFFICIO DELL’ONU in Myanmar ha chiesto alle forze di sicurezza di rispettare i diritti e le libertà fondamentali, compreso quello di riunione e la libertà di espressione. Gli Stati Uniti hanno ribadito il loro sostegno alla richiesta di ripristinare il governo eletto. Ma per ora i militari non cedono anche se cercano di «legalizzare» il golpe. Ad esempio con una nuova legge sulla sicurezza informatica che consenta loro di imporre chiusure – ora arbitrarie – su Rete e social. Vorrebbero un mega firewall in stile cinese per mettere a tacere anche chi usa la Vpn . Dovrebbero lavorarci proprio tecnici della Rpc che sarebbero arrivati in questi giorni in Myanmar per crearlo.
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]