Per gli Stati Uniti, il rovesciamento del governo birmano da parte dei militari è a tutti gli effetti un colpo di stato. Lo ha annunciato ieri il Dipartimento di Stato americano spiegando che “dopo un attento esame dei fatti e delle circostanze, abbiamo valutato che Aung San Suu Kyi, la leader del partito al governo birmano, e Win Myint, il capo del governo debitamente eletto, sono stati deposti con un colpo di stato militare”. Richiedendo il rilascio dei prigionieri, Washington ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti erogati attraverso canali governativi. Mossa simbolica considerando che i militari birmani sono già sulla blacklist americana per via della repressione dei rohingya. Lunedì, Biden ha annunciato di stare considerando una reimposizione delle sanzioni revocate durante la transizione democratica. Ma l’Occidente e l’Asia democratica sanno ben che una nuova fase di introversione getterebbe Naypyidaw tra le braccia di Pechino. Australia e Giappone sono tra i pochi paesi a mantenere ancora rapporti militari con l’esercito birmano. Commentando la crisi birmana, il vice ministro della difesa nipponico Yasuhide Nakayama ha avvertito che “se non affrontiamo bene la situazione, il Myanmar potrebbe allontanarsi ulteriormente dalle nazioni democratiche politicamente libere e unirsi alla lega cinese”. Nella giornata di ieri, Pechino ha esercitato il proprio potere di veto in sede Onu impedendo al Consiglio di Sicurezza di rilasciare un comunicato congiunto contro l’esercito birmano.
Intanto, mentre nel paese la vita prosegue apparentemente come nulla fosse, si cominciano a scorgere le prime reazioni di dissenso. Stamattina, per protestare contro il golpe, i dipendenti di 70 strutture sanitarie in 30 città birmane sono entrati in sciopero. “Ci rifiutiamo di obbedire a qualsiasi ordine del regime militare illegittimo che ha dimostrato di non avere alcun riguardo per i nostri poveri pazienti”, ha dichiarato il Myanmar Civil Disobedience Movement, “seguiremo e obbediremo solo agli ordini del nostro governo democraticamente eletto”. [fonteReuters BBCReuters]
Il team dell’Oms all’istituto di virologia di Wuhan
Il team dell’Oms ha visitato il controverso istituto di virologia di Wuhan, che teorie complottiste indicano come il vero epicentro dell’epidemia. Come anticipato dalla stampa cinese, la struttura ha ricevuto gli esperti internazionali questa mattina, a un anno dall’inizio della pandemia. Durante l’ispezione, durata tre ore e mezza, la squadra di Peter Ben Embarek ha avuto modo di incontrare anche Shi Zhengli, la scienziata coinvolta nelle ricerche sui coronavirus dei pipistrelli e pertanto bersagliata dalle accuse di quanti sospettano che la pandemia sia il frutto di un errore umano o di un virus creato in laboratorio.[fonte GT, FT]
I Balcani nell’orbita cinese
I Balcani sono sempre più al centro delle rivalità tra Cina e Unione europea. Dopo aver corteggiato la regione per anni con la promessa di investimenti infrastrutturali, nell’ultimo anno, Pechino ha sfruttato la pandemia per cementare le alleanze locali rispondendo alla richiesta di mascherine, forniture mediche e vaccini. Complice l’inadempienza dell’Unione europea che, pur avendo stanziato 70 milioni di euro per supportare la campagna vaccinale nei sei aspiranti membri Ue, ha ritardato la distribuzione delle dosi lasciando a secco Kosovo, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord e Montenegro. Il 19 gennaio la Serbia, uno dei principali partner regionali della Cina, è diventata il primo paese europeo a rifornirsi dalla cinese Sinopharm. Mossa che le ha permesso di diventare il secondo paese del Vecchio Continente per numero di vaccini somministrati, dopo la Gran Bretagna. Stufi di aspettare Covax, Skopje e Podgorica hanno annunciato di voler intraprendere la stessa strada. Fatta eccezione per l’Albania – che per trascorsi storici diffida da Cina e Russia – i Balcani diventeranno probabilmente un terminale chiave della cosiddetta “nuova via della seta sanitaria”. Secondo i media cechi, il 7 febbraio si terrà (virtualmente) il vertice “17 +1”, la piattaforma che raggruppa 17 paesi dell’Europa centrale e Orientale (la maggior parte dei quali membri Ue) più la Cina. Lanciata nel 2012 per promuovere gli investimenti cinesi nel Vecchio Continente, l’iniziativa non è mai stata vista troppo di buon grado da Bruxelles, che vi scorge dinamiche da “divide et impera”. [fonte FT, Bloomberg]
La campagna vaccinale prosciuga la produzione cinese di siringhe
E dopo le mascherine è la volta delle siringhe. Il Covid sta mettendo a dura prova la capacità produttiva dell’ex fabbrica del mondo. Secondo la Reuters, diversi stabilimenti cinesi – pur rimanendo operativi 24 ore su 24 – hanno dichiarato di avere difficoltà a sostenere la campagna vaccinale globale. Cina e India sono i due maggiori produttori di siringhe a livello mondiale. Ma l’aumento esponenziale della domanda ha colto di sorpresa anche i leader del settore. Zhejiang KangKang Medical Devices, ad esempio, a dicembre ha iniziato a chiudere contratti per l’esportazione di 10 a 20 milioni di siringhe ciascuno, rispetto a ordini da circa 5 milioni di pezzi del periodo pre-pandemico. L’azienda ha in programma di quadruplicare la produzione entro maggio. Ma fino ad allora l’affollamento lungo le linee di produzione comporterà un aumento dei prezzi, in alcuni casi già più che triplicati. [fonte Reuters]
Taiwan: opinion leader americani a favore di una guerra con la Cina
La maggior parte dell’ “America che conta” è favorevole a un intervento armato a fianco di Taiwan in caso di un attacco cinese. E’ quanto emerge da un sondaggio del Chicago Council on Global Affair, secondo il quale ben oltre la metà dei 900 opinion leader intervistati (compresi giornalisti, accademici, membri del Congresso e funzionari governativi) vede con favore un coinvolgimento americano in una guerra tra le due Cine. La difesa di Taiwan è sponsorizzata dall’85% dei repubblicani, dal 63% dei democratici e dal 58% dei rispondenti indipendenti. Quando si prende in considerazione l’opinione pubblica, la base del consenso è più risicata (41%) ma in netto rialzo rispetto al 2014 (24%). Durante il governo Trump, Washington ha rafforzato i propri rapporti diplomatici e difensivi con l’isola democratica, suscitando l’ira di Pechino. La squadra di Biden non sembra intenzionata a modificare la linea trumpiana, almeno non nella sostanza. Rilasciando la prima intervista da segretario di Stato, Antony Blinken ha definito la Cina “la maggiore sfida” degli Stati Uniti. In tutta risposta, il consigliere di Stato cinese Yang Jiechi lunedì ha chiesto alla nuova amministrazione statunitense di rispettare la sovranità cinese su Hong Kong, Xinjiang e Taiwan. [fonte SCMP]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.