Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e leader “de facto” del Myanmar, è stata arrestata in un colpo di stato organizzato dal regime militare e guidato dal Generale Min Aung Hlaing. Insieme a lei, numerosi altri membri della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) sono attualmente detenuti -tra cui il Presidente U Win Myint e diversi ministri, scrittori e attivisti- mentre il governo comunica lo “stato di emergenza” per un intero anno.
Al contrario di quanto si possa pensare, l’emergenza non è legata alla pandemia ma a polemiche che per molti versi richiamano l’atteggiamento di Trump in seguito alla sconfitta negli Usa, avvenuta nello stesso periodo di quella che ha investito il partito filo-militare birmano (USDP) lo scorso 8 novembre. Infatti, senza prove tangibili e contro il parere degli osservatori internazionali, l’USDP accusa la NLD di frode elettorale, nonostante quest’ultima sia stata riconfermata con una maggioranza schiacciante vicina all’80% dei seggi. Nella notte sono state anche rimosse le bandiere della lega democratica dai balconi e dalle finestre di Yangon, “nessuno vuole diventare un bersaglio” scrivono alcuni utenti birmani su Twitter.
Da detenuta a Premio Nobel
Suu Kyi è figlia del generale Aung San, leader del Partito comunista birmano che condusse il paese all’indipendenza dal Regno Unito nel 1947, avviando un processo di unificazione nazionale delle minoranze che non riuscì mai a implementare, in quanto venne assassinato lo stesso anno dalla fazione dell’esercito che instaurò il regime attuale. Il nuovo regime puntò su di un’assimilazione forzata dei gruppi etnici, portando in breve tempo alla guerra civile contro le principali minoranze armate (Kachin, Shan, Karen) e a disastrosi genocidi, come quello attualmente vissuto dai Rohingya.
Al tempo dell’uccisione del padre, Suu Kyi aveva appena due anni. Si formò tra Delhi, Oxford e New York e tornò in Myanmar nel 1988 per stare vicino alla madre gravemente malata. Era un anno di grandi proteste studentesche e democratiche, le più imponenti vissute nel paese dal dopoguerra, culminate in una repressione governativa che causò migliaia di vittime. In questo clima, Aung San Suu Kyi si mobilitò per la formazione di gruppi di protesta di cui divenne simbolo e leader, venendo così arrestata. Dal 1989 al 2010, subì 15 anni di detenzione e arresti domiciliari. Nel 1991 fu insignita del Nobel per la Pace, un premio che potè ritirare solo nel 2012, 21 anni dopo, in seguito alla sua liberazione (13/11/2010) e alla sua elezione in parlamento (1/4/2012).
Da leader mondiale al processo per i diritti umani
Le elezioni del 2012 furono possibili solo grazie alle sanzioni e le pressioni internazionali relative alla mancanza di democrazia e diritti umani in Myanmar, ma avvennero solo in seguito alla modifica della Costituzione da parte del regime.
Per Gun Maw, generale dell’esercito Kachin intervistato per il Manifesto nel 2018, “la Carta rivendica la libera espressione, ma utilizza un ‘linguaggio restrittivo che contravviene gli standard internazionali… Per la Costituzione il 25% dei seggi è sempre destinato ai militari e la sua modifica richiede più del 75% del parlamento’. In altre parole spiegano il generale e i suoi assistenti “è quasi impossibile modificarla senza i voti dell’esercito”.
Tale situazione di impotenza e compromesso forzato con il regime, ha portato in breve tempo a minare la figura di Suu Kyi sia sul fronte internazionale e sia sul fronte domestico. Nonostante infatti la nuova costituzione, le elezioni, la sospensione delle sanzioni e il cessate il fuoco del 2014, il governo birmano ha continuato a bombardare senza sosta i gruppi etnici: trucidando, stuprando e usando come scudi umani i civili. Un fenomeno che ha spinto alcuni di essi, come i Kachin, ad una condizione di miseria legata al mercato nero di minerali e droghe, e altri gruppi come i Rohingya ad un esodo di quasi un milione di profughi.
“La questione delle minoranze in Myanmar è indissolubilmente legata ai Rohingya“, spiegava dopo il voto di novembre a China Files l’analista Giulia Sciorati (ISPI), “un gruppo etnico di religione musulmana che, secondo l’ONU, sta vivendo un vero e proprio tentativo di ‘pulizia etnica’… Le ultime elezioni ci hanno mostrato che il governo non sta ancora tendendo la mano a questo gruppo: ad alcuni Rohingya non è stato infatti permesso di candidarsi e in alcune aree popolate da questa minoranza non si è neppure potuto andare a votare. La strada rimane ancora tortuosa prima di raggiungere una stabilità inter-etnica in Myanmar”.
Nel 2018, il portavoce dell’esercito Kachin affermava: “quello che il mondo vede come simbolo di speranza per il Myanmar, Aung San Suu Kyi, non lo è più per noi. Lei non fa parte delle minoranze, né sembra avere reali progetti per i gruppi etnici. Purtroppo, è un burattino nelle mani del governo, strumentalizzata come simbolo di un illusorio progresso democratico per evitare le sanzioni”. Avvenimenti che nel 2019, a quasi 30 anni dal Nobel, la portarono alla Corte di Giustizia dell’Aia per fronteggiare le gravi accuse di genocidio e crimini contro l’umanità.
Si arresta il fragile processo di transizione democratica
“Le porte si sono appena aperte su un futuro diverso, quasi certamente più oscuro”, afferma Thant Myint-U, storico del Myanmar in un libro tradotto in Italia da Add Editore. “Il Myanmar è un paese già in guerra con se stesso, inondato di armi, con milioni di persone che riescono a malapena a nutrirsi, profondamente divisi lungo confini etnici e religiosi”.
Nell’ex-capitale, a Yangon, membri e veterani della NLD continuano la battaglia per la libertà e la democrazia, invitando tutto il popolo ad opporsi e alzare la voce contro il regime. “Ciò non significa violenza” spiega U Win Htein, fedele consigliere e membro della Lega, “Proprio come affermato da Daw Aung San Suu Kyi, lo faremo con la disobbedienza civile non violenta”.
L’Onu, gli Stati Uniti, il Giappone, l’India e i principali governi europei hanno mostrato sconcerto, la gran parte condannando il gesto e richiedendo la liberazione del leader birmano. “La volontà della popolazione è chiaramente emersa nelle ultime elezioni e va rispettata.” afferma la Farnesina, “Siamo preoccupati per questa brusca interruzione del processo di transizione democratica e chiediamo che venga garantito il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.
La Cina non condanna il colpo di stato
Mentre il mondo parla di serio pericolo per la democrazia, la Cina nota l’avvenimento, ma non condanna i fatti. Il portavoce del ministero degli esteri Wang Wenbin ha dichiarato questa mattina: “Siamo in procinto di capire cosa stia accadendo nel paese”. Tailandia, Filippine e Cambogia hanno seguito la linea di “non interferenza” di Pechino, considerando la questione come un affare domestico birmano.
La Cina confina con il Myanmar, in particolare col territorio Kachin, e vanta grande interessi geopolitici ed economici nell’area. Le risorse naturali, la diga Myitsone e la posizione strategica al confine la rendono appetibile per Pechino, a tal punto da poter considerare questo atteggiamento come l’esatto opposto di quanto predicato dal suo mantra di non-interferenza. La Cina è stata uno dei primi mediatori tra minoranze e governo, con un doppio gioco che ha spesso esacerbato il conflitto, supportando sia l’esercito nazionale e sia i ribelli.
Classe 1989, Sinologo e giornalista freelance. Collabora con diverse testate nazionali. Ha lavorato per lo sviluppo digitale e internazionale di diverse aziende tra Italia e Cina. Laureato in Lingue e Culture Orientali a La Sapienza, ha perseguito gli studi a Pechino tra la BFSU, la UIBE e la Tsinghua University (Master of Law – LLM). Membro del direttivo di China Files, per cui è responsabile tecnico-amministrativo e autore.