Secondo Bill Hayton, la Cina si sarebbe inventata il proprio passato per proporsi all’interno del nuovo contesto globale come potenza responsabile nonché come «civiltà» in grado di offrire un’alternativa alla guida statunitense del mondo. Il suo libro, The invention of China (Yale University Press, 2020, pp. 320, 30 dollari) pur ricco di vicende e particolari spesso dimenticati dalla storiografia cinese ufficiale, finisce per ammantarsi di orientalismo nel tentativo piuttosto bizzarro di spiegare ai cinesi la propria storia. Che la nascita degli Stati nazione sia spesso stata artefatta, immaginaria, epica, lo dimostra nel bene o nel male anche la storia italiana.
HAYTON, una lunga frequentazione in Asia e corrispondente per la Bbc, ritiene che alcune delle caratteristiche del racconto cinese contemporaneo affondino, in realtà, in invenzioni, o meglio in Frankenstein scaturiti da impulsi occidentali. L’esempio supremo sarebbe proprio il nome che ha sancito la nascita dello Stato nazione cinese, «Cina» nel senso di Zhongguo, «terra di mezzo» o ancora meglio «centro del mondo», il modo con il quale quel territorio sterminato veniva chiamato dagli occidentali, mentre i cinesi preferivano Tianxia.
Analoga «invenzione» sarebbe il concetto stesso di sovranità che oggi la Cina difende a spada tratta, mentre non sarebbe altro che una sorta di imitazione del concetto occidentale. Solo che Hayton, invece di considerare questi influssi come una forma di colonizzazione del pensiero, li ritiene alla base delle falsificazioni storiche operate dal partito comunista, provando anche a smentire quel racconto del «secolo delle umiliazioni» che costituisce il grimaldello della narrazione di Xi Jinping (e che a dire il vero pare piuttosto incontrovertibile dal punto di vista storico, a meno di non voler sollevare da responsabilità il colonialismo occidentale).
SECONDO IL SINOLOGO Kerry Brown il libro, pur interessante, fallirebbe nell’intento perché sovradimensionerebbe alcuni protagonisti della storia cinese, senza tenere conto del contesto. Lo stesso procedere del libro, a tratti condito da una sorta di sensazionalismo accademico, lo conferma.
Eppure l’epica cinese nell’era di Xi Jinping non è negata dallo stesso Brown che nella sua ultima produzione, China (Polity, pp. 224, 15 dollari) si concentra – tra le altre cose – proprio sull’aspetto riguardante lo storytelling dell’attuale partito comunista. Lo scopo di queste narrazioni è quello di creare una comunità, di radunare intorno ai miti un insieme di persone che si rivedono nel racconto epico, che traggono linfa da questo racconto.
QUANDO AD ESEMPIO, nel 2012, Xi Jinping – appena nominato segretario del partito comunista cinese – nel suo discorso inaugurale dice che «la nostra è una grande nazione. Attraverso 5mila anni di sviluppo la Cina ha contribuito al progresso dell’umanità. Sin dall’era moderna, però, la nostra nazione ha attraversato tribolazioni e ha affrontato pericoli. Finché persone con idee elevate insorsero per la rinascita della nazione cinese» sta proponendo esattamente una forma di epica riguardo la Cina. In questo contesto lo storytelling è utilizzato dapprima in senso interno, ovvero è rivolto ai cinesi, quando Xi Jinping lancia il suo primo slogan, il «sogno cinese».
Già il sogno trascende la realtà, indica qualcosa di indefinito, dalle origini tutte da scrivere e dal futuro tutto da esplorare. Il vuoto che ci apparve all’epoca – quando Xi Jinping, di cui si sapeva pochissimo, venne nominato segretario del Pcc – è stato riempito nel tempo dallo stesso Xi che ha fatto partire la sua epica da se stesso, dalla sua storia, dalla sua adolescenza. Il processo è tipico: un passato mitico, diventato subito cardine del racconto della sua ascesa, l’adolescenza trascorsa in campagna, a causa della purga subita dal padre che pure fu un funzionario rilevante in epoca maoista, la vicinanza al popolo, la capacità, per questo suo passato, di comprendere il popolo. Xi Jinping ai cinesi sta dicendo, sono uno di voi. Si tratta di un grande scarto rispetto al passato anche più recente, quando i leader cinesi apparivano chiusi nel loro mondo burocratico e tutto economicista. Ma il racconto epico allaccia tempi ed epoche diverse, è mito, dunque atemporale. Xi Jinping allarga poi il campo con la Nuova Via della Seta, facendo emergere la sua carriera per rappresentare ai cinesi una verità cui in tanti credono, ovvero la Cina come terra per eccellenza della meritocrazia.
E PROPRIO DI MERITOCRAZIA si era occupato qualche anno fa il sinologo Daniel Bell che torna a pubblicare un libro insieme a Wang Pei – un allievo di Wang Hui – dal titolo Just Hierarchy: Why Social Hierarchies Matter in China and the Rest of the World (Princeton University Press, pp. 288, 30 dollari). Bell non è nuovo a provocazioni: in The China Model: political meritocracy and the limits of democracy aveva presentato la Cina come una «meritocrazia» da contrapporre alle democrazie occidentali; nel nuovo volume si prefigge di spiegare come la «gerarchia» sia un elemento cardine della meritocrazia e in grado di fare funzionare al meglio le società. Il punto di partenza, come accadeva già nel precedente volume, è l’«efficacia» di organizzazioni – Stati, aziende, ecc. – riscontrata laddove meritocrazia e gerarchia vanno di pari passo.
Un testo provocatorio, ricco di spunti – come quelli presentati nell’ultimo capitolo sul rapporto tra macchine e umani nel quale si immagina uno scontro tra Pcc e una Super Ai creata dai big tech occidentali – ma che non convince. Come ha scritto Peter Gordon su Asian review of Books, «gli autori iniziano sostenendo che le gerarchie non sono universalmente o intrinsecamente cattive. Ciò consente loro di schierare una contro argomentazione in difesa del modo con il quale la Cina organizza le cose, e come alcune cose potrebbero in effetti andare bene. (…) Il problema più grande è chi può decidere cosa è giusto e morale. Gli autori, in tutta onestà, riconoscono questo problema, ma il risultato – dopo citazioni da Confucio, storia cinese e simili – è che le strutture e le pratiche cinesi dovrebbero essere valutate in riferimento alle condizioni, situazioni e punti di riferimento cinesi. Questa, ancora una volta, è una posizione non priva di merito, ma è anche il tipo di argomento che può essere (ed è stato) utilizzato per giustificare qualsiasi cosa».
ECCEZIONALISMO cinese duro a morire e che prova a essere inserito in un contesto globale da David Shambaugh, curatore di China and the World (Oxford University Press, pp. 336, 30 dollari), collazione che indaga le tante relazioni internazionali della Cina. Shambaugh, professore di scienze politiche alla George Washington University e da tempo osservatore delle dinamiche sia interne sia esterne della Cina, nella sua introduzione riprende la sua teoria (espressa in China goes global del 2014) secondo cui la Cina sarebbe una «parziale» potenza globale: Pechino, secondo la tesi di Shambaugh, svilupperebbe ottimi rapporti con i paesi in via di sviluppo, ma avrebbe ancora molti problemi con i «grandi». Opinione condivisibile, considerando che il soft power cinese ancora non pare avere trovato il modo di inserirsi nei discorsi «occidentali», sia politici sia culturali.
E A QUESTO PROPOSITO, per tornare all’epica cinese, di particolare interesse è il capitolo «China’s Global Cultural Interactions», scritto da Shaun Breslin professore di studi internazionali all’università di Warwick. Il capitolo prende in esame più che il soft power, il concetto di «comunicazioni culturali internazionali»: ricordando come il primo paper a proposito della necessità da parte della Cina di raccontarsi sia stato scritto nel 1993 da Wang Huning (ideologo, oggi tra i sette uomini più importanti del paese in quanto membro della commissione permanente del Politburo), Breslin prova a tratteggiare il tentativo cinese di porsi come potenza «responsabile» attraverso lo storytelling indicato da Xi Jinping quando ha sostenuto la necessità di «aumentare il soft power cinese, fornendo una buona narrazione della Cina e comunicando meglio il nostro messaggio al mondo». Procedimento in atto, risultati alterni e futuro in balia delle iperstizioni del mondo preda del Covid.
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.