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I FANTASTICI 4
IL VACCINO CINESE
Dopo il comunicato Pfizer-BionTech, è arrivato l’annuncio della biotech americana Moderna: il suo vaccino contro il coronavirus è efficace al 95%. Nel frattempo Gao Fu, direttore del Chinese Center for Disease Control and Prevention (CDC) ha rimarcato che ”anche i vaccini cinesi per il Covid-19 sono molto efficaci”. In Fase III dei trial clinici, con sperimentazioni anche in Pakistan, Uzbekistan, Perù, Emirati Arabi, Argentina, Indonesia e Brasile, ci sono a oggi cinque vaccini cinesi. Sperimentando cinque diversi approcci tecnologici (vaccini inattivati, vaccini con proteine ricombinanti, vaccini vettoriali adenovirali, vaccini vettoriali del virus attenuato dell’influenza e vaccini ad acidi nucleici) la Cina – da ottobre nel programma COVAX – ha inoltre lanciato un piano emergenziale di vaccinazione su circa un milione di individui tra personale medico, di frontiera e in trasferta estera ad alto rischio. Un rischio – quello di vaccinare al di fuori dei trial clinici e soprattutto prima della loro conclusione – che diversi esperti sanitari hanno giudicato “non necessario” ma che per la Cina rappresenta un’importante scommessa verso il traguardo della vaccine race.
Quali sono i vaccini cinesi e cosa si sa a riguardo?
I vaccini cinesi in Fase III sono cinque, di cui due appartenenti alla società di stato China National Biotec Group (Sinopharm), uno alla SinoVac Biotech, uno alla CanSino Biologics e uno alla China’s Anhui Zhifei Longcom Biopharmaceutical (sussidiaria della Chongqing Zhifei Biological Products). I dati relativi all’ultima fase di sperimentazione clinica non sono stati ancora pubblicati, ma le autorità cinesi affermano che alle inoculazioni non sarebbero connessi effetti collaterali gravi. La morte di un volontario durante gli studi a Sao Paolo, in Brasile, che in un primo momento aveva interrotto la sperimentazione del CoronaVac (il vaccino della SinoVac) è stata in seguito dichiarata non dipendente dalla somministrazione del vaccino. Sebbene a essere state inoculate siano centinaia di migliaia di persone in più continenti, non sono a oggi pervenute ufficiali e dettagliate informazioni in merito alla durata dell’immunità che conferisce, né alla sua sicurezza ed efficacia. Il Wall Street Journal riporta però che il livello di anticorpi conferiti dal CoronaVac sarebbe inferiore a quello riscontrato in coloro che hanno contratto il Covid-19, condizione che non si riscontra con Pfizer o Moderna, la cui risposta immunitaria sarebbe più robusta. Tuttavia, uno svantaggio dei vaccini di Pfizer e Moderna è che, essendo a mRNA, devono essere conservati a temperature estremamente basse (-70°C /-94°F per Pfizer; – 20°C /-4°F per Moderna). Ciò rende la distribuzione difficile, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Per il CoronaVac, invece, è sufficiente la conservazione in un frigorifero standard tra i 2° e gli 8°C.
Domanda e offerta: quante dosi e a chi?
I funzionari sanitari cinesi hanno promesso pubblicamente che un vaccino efficace contro il coronavirus sarà disponibile entro la fine dell’anno. Più nello specifico, Zheng Zhongwei, capo della COVID-19 vaccine task force del governo cinese, in ottobre ha dichiarato che la Cina produrrà fino a 600 milioni di dosi entro la fine dell’anno, mentre ne sono previste un miliardo per il 2021. Il paese si è anche impegnato a condividere i suoi vaccini con più di una dozzina di stati con cui ha stretti legami, tra cui Filippine, Cambogia, Myanmar, Thailandia, Laos, Indonesia, Perù, Argentina e paesi africani, ma anche Arabia Saudita, Emirati Arabi e Marocco. Tuttavia, con una popolazione domestica di 1.4 miliardi di persone, le dosi destinate all’export sembrerebbero essere estremamente ridotte. Di fatto, alcuni scienziati avanzano dubbi circa la capacità della Cina di produrre dosi sufficienti per rispettare i suoi impegni internazionali e si chiedono se gli accordi con i singoli paesi siano il modo migliore per garantire un’equa distribuzione dei vaccini. Jerome Kim, direttore generale dell’International Vaccine Institute di Seul, suggerisce che la Cina stia utilizzando i rapporti bilaterali per ottenere futuro appoggio politico e benefici economici.
Che cos’è il COVAX?
Nel corso della World Health Assembly dello scorso maggio Xi Jinping ha affermato che i vaccini cinesi contro il Covid-19 saranno “un bene globale pubblico”. Il 9 ottobre, la portavoce del Ministero degli Affari Esteri cinese, Hua Chunying, ha annunciato che la Cina ha formalmente preso parte al COVAX. Il Covid-19 Vaccine Global Access (COVAX), sforzo congiunto di Gavi, Vaccine Alliance, Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI) e della World Health Organization (WHO) mira a fornire due miliardi di dosi di vaccino agli individui più vulnerabili e al personale sanitario, specialmente nei paesi più poveri. Circa 80 paesi ‘self-funding’ si sono impegnati a sostenere l’iniziativa, con la notevole eccezione degli Stati Uniti. Non è ancora chiaro se la Cina impegnerà denaro o vaccini e in che quantità.
A cura di Fabrizia Candido
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HONG KONG SEMPRE PIU’ CINESE
Un paese, due sistemi: la patria, prima del diritto. Questo è il concetto chiave che emerge dall’ultimo commento di Pechino in occasione dell’anniversario della Basic Law, la mini-costituzione di Hong Kong. La presa autoritaria sulla metropoli sembra giunta a un punto di non ritorno, con la Legge di Sicurezza Nazionale approvata a giugno che permette alla Cina di perseguire qualsiasi atto considerato sedizioso con pene che arrivano all’ergastolo.
L’escalation degli ultimi mesi preoccupa gli osservatori esterni e non sono mancati gli appelli che chiedono al governo cinese di rivedere la propria posizione. L’ultima dichiarazione dei Five Eyes, l’alleanza di intelligence tra USA, UK, Nuova Zelanda, Canada e Autralia, chiede al Partito di riconsiderare le ultime mosse di Pechino nei confronti dell’ex-colonia britannica in quanto “parte di una campagna per mettere a tacere le critiche”.
L’11 novembre quattro membri del Legislative Council (LegCo) sono stati privati del proprio posto all’interno dell’assemblea per ordine di Pechino: Alvin Yeung, Dennis Kwok, Kwok Ka-ki e Kenneth Leungsi erano schierati contro la decisione di rimandare le elezioni di un anno e sono colpevoli di “mancanza di patriottismo”. In risposta alla sentenza, tutti i restanti 15 membri dell’opposizione hanno dato le dimissioni. Pochi giorni prima la Casa Bianca aveva imposto nuove sanzioni su quattro funzionari cinesi coinvolti nella sicurezza di Hong Kong.
Perché si protesta a Hong Kong?
Negli ultimi 16 mesi l’ingerenza di Pechino sugli affari interni dell’ex colonia britannica è diventata pervasiva. A rischio c’è la sopravvivenza del principio “un paese, due sistemi”, formula con cui la Cina, una volta ottenuto il ritorno dei territori di Hong Kong dal Regno Unito nel 1997, si è impegnata a garantire all’ex colonia inglese la parziale autonomia istituzionale ed economica per cinquant’anni. A giugno dello scorso anno il malcontento della popolazione locale si è riversato in strada dopo il tentativo di introdurre una legge che – se approvata – avrebbe permesso l’estradizione dei sospetti nella Cina continentale, dove i tribunali sono controllati dal partito comunista. Proteste anti-Pechino su suolo hongkonghese non sono una novità, ma la violenza degli scontri tra manifestanti e polizia nel 2019 è cresciuta esponenzialmente, anche dopo il ritiro della proposta.
Il South China Morning Post sta pubblicando un documentario in quattro puntate disponibile gratuitamente su YouTube, ricco di immagini e testimonianze dirette. Emblematico il titolo: “Hong Kong, la città ribelle della Cina”.
Cosa è successo dalla ratifica della Legge di Sicurezza Nazionale (LSN)?
Cavalcando la tensione del momento, a giugno 2020 la Cina ha fatto entrare in vigore una nuova legge sulla sicurezza nazionale che condanna chi porta avanti azioni “antipatriottiche e indipendentiste” sia nella madrepatria che all’estero. Persone coinvolte nelle ultime manifestazioni sono già state arrestate e portate di Cina, dove sono in attesa di giudizio. È un duro colpo per la città, dove vige ancora il sistema giudiziario basato sulla Common Law, che poco somiglia al “fumoso” iter processuale cinese. Sono già una trentina gli arresti e le denunce perpetrate dalla polizia nel quadro della Legge di Sicurezza Nazionale, oltre alle dimissioni imposte a insegnanti, politici e funzionari locali. Il caso più emblematico è l’arresto di 12 hongkongini tra i 16 e i 33 anni detenuti a Shenzhen dal mese di agosto: solo al 20 di novembre sette famiglie hanno dichiarato di aver ricevuto le prime notizie dalla Cina, poche parole che rassicurano sullo stato di detenzione degli accusati e l’invito a non interferire nel processo.
E adesso?
È evidente che la Cina non ha intenzione di fare nessun passo indietro sulla Legge di Sicurezza Nazionale. Il dibattito con gli osservatori esterni è giunto a un’impasse. Pechino riafferma con determinazione tutti i diritti del proprio operato, ritenendolo coerente con il principio del “un paese, due sistemi”, che i detrattori “non capiscono”. Taglienti anche le accuse di interferenza negli affari interni del paese, che sono diventate l’arma di Pechino contro le denunce internazionali e giustificazione principale delle sommosse dell’ultimo anno. Da parte della comunità internazionale manca coesione sulla vicenda di Hong Kong: l’Unione Europea ne aveva fatto cenno durante l’ultimo incontro virtuale con il presidente Xi, l’America di Trump ha imposto qualche sanzione decorata da affermazioni molto meno diplomatiche, mentre altri paesi hanno aperto le frontiere a chi desiderasse lasciare la città. Cresce il numero di giovani che si recano all’estero nel tentativo di far perdere le proprie tracce, pur rimanendo perseguibili dalla LSN. Con la legge in vigore è possibile che Pechino continui ad agire in piena libertà nei confronti di qualsiasi individuo, rivendicando ancora una volta l’eccezionalismo del proprio sistema. Quando si parla di Hong Kong molti osservatori guardano con timore anche alla questione Taiwanese, che la Cina continua a considerare parte del proprio territorio mentre l’isola è sempre più realista sull’impossibilità di un ricongiungimento di sistemi e di valori.
A cura di Sabrina Moles
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IL CASO ANT GROUP
Martedì 3 novembre, l’ente regolatore ha fermato l’Offerta pubblica iniziale (Ipo) da 37 miliardi di dollari di Ant Group. Il braccio finanziario di Alibaba era in procinto di debuttare sulla borsa di Shanghai e Hong Kong ma ad appena due giorni dall’inizio delle negoziazioni è scattato il semaforo rosso. Ufficialmente, “cambiamenti del quadro regolatorio” avrebbero reso necessari nuovi accertamenti ma secondo fonti della Reuters a preoccupare le autorità è “l’adeguatezza del capitale e il rapporto di indebitamento” della fintech. La decisione è giunta all’indomani della convocazione dei dirigenti dell’azienda – compreso il fondatore Jack Ma – da parte della la banca centrale cinese, della China Banking and Insurance Regulatory Commission (CBIRC) e della China Securities Regulatory Commission, la Consob locale. Se portata a termine quella di Ant sarebbe stata l’Ipo più grande di sempre con una raccolta record di 34,5 miliardi di dollari nella doppia quotazione. Più del gigante del petrolio saudita Saudi Aramco, che a dicembre aveva totalizzato 29,4 miliardi. La valutazione complessiva della fintech cinese avrebbe potuto così superare i 313,37 miliardi di dollari, scavalcando i colossi bancari americani Goldman Sachs e Wells Fargo. Le prospettive per Jack Ma sarebbero stata ugualmente radiose. Da anni ormai sul podio dei miliardari cinesi, il “golden boy” – che detiene l’8,8% delle quote del gruppo – sarebbe potuto diventare l’11esimo uomo più ricco al mondo. Invece, nonostante le vendite record del Single Day 2020, dopo il flop di Ant, Alibaba ha perso il 9,8% alla borsa di Hong Kong, mentre Ma è stato scavalcato dal patron della Nongfu, Zhong Shanshan, al momento uomo più ricco di Cina.
Cos’è Ant Group?
Fondata nel 2014 con il nome di Ant Financial, è la costola finanziaria del colosso dell’e-commerce cinese Alibaba, che ne detiene la proprietà per circa un terzo, e amministra Alipay, la piattaforma di pagamenti digitali più grande al mondo (1,3 miliardi di utenti attivi se si aggiungono le sue fintech controllate in Sud Corea, Indonesia, Thailandia, Taiwan), nonché il primo “unicorno” per valore. Considerata la risposta cinese a PayPal, viene utilizzata per gli acquisti online o presso punti vendita fisici così come per i trasferimenti di denaro P2P, che rappresentano il 54% dei ricavi totali. Ma Ant emette anche polizze assicurative, controlla Y’ue Bao, il money market fund più grande al mondo, e fornisce servizi di credito al consumo e per le pmi. Solo nell’ultimo anno, la “formica” ha rilasciato prestiti non garantiti a circa 500 milioni di persone attraverso le due piattaforme Huabei – specializzata in prestiti al consumo per piccoli acquisti – e Jiebei – che finanzia tutto, dai viaggi all’istruzione. Generalmente Ant addebita ai consumatori tassi di interesse annualizzati di circa il 15% rispetto al 5,94% concesso dalle banche. Ma assicura credito facile al di fuori dei canali ufficiali che penalizzano le piccole realtà private a vantaggio delle aziende di stato.
Perché il governo ha bloccato l’Ipo?
Il dietrofront dei regolatori, per quanto improvviso, era stato anticipato da alcune avvisaglie. Solo pochi giorni prima il Financial News, pubblicazione legata alla banca centrale cinese, aveva messo in guardia da possibili rischi sistemici a causa delle dimensioni raggiunte dal gruppo. A stretto giro, la CBIRC aveva presentato nuove e più stringenti regole per la microfinanza online che impongono per la prima volta requisiti minimi di capitale oltre a regole sulle strutture proprietarie e controlli più stringenti sui prestiti oltre i confini provinciali. Secondo Bloomberg, le nuove condizioni imposte dai regolatori renderebbero molte transazioni di Ant non conformi. Commentando la sospensione, Guo Wuping, responsabile per la protezione dei consumatori presso la CBIRC, ha dichiarato che Huabei è simile a una carta di credito ma con costi più elevati: “le società di tecnologia finanziaria usano il loro potere di mercato per fissare commissioni esorbitanti in partnership con le banche, che forniscono la maggior parte dei fondi richiesti.” Le preoccupazioni delle autorità seguono una lunga scia di frodi che negli ultimi anni ha portato alla chiusura di oltre 5000 piattaforme P2P. Ecco che la decisione delle autorità sembra rispondere alla necessità di tutelare gli utenti e mantenere la stabilità del sistema finanziario. Una spiegazione che giustifica una seconda picconata, stavolta dell’organismo di vigilanza antitrust che ha avviato un periodo di consultazione per la creazione del primo quadro normativo volto a contenere lo strapotere delle big tech come Alibaba e Tencent per tutelare i consumatori, combattendo comportamenti anticoncorrenziali.
Ok, ma perché il governo ha bloccato l’Ipo?
Il vero campanello d’allarme era squillato a fine ottobre, quando durante il Bund Finance Summit di Shanghai era andato in scena una strana tenzone tra Jack Ma e Wang Qishan. L’imprenditore aveva accusato la finanza tradizionale di strangolare l’innovazione in risposta agli avvertimenti con cui il vicepresidente – ex governatore della China Construction Bank – aveva espresso la necessità di contenere i rischi per il sistema. Secondo il Wall Street Journal, i toni provocatori di Ma hanno spinto il presidente Xi Jinping a chiedere personalmente la sospensione dell’Ipo. La decisione rischia tuttavia di avere ripercussioni più ampie per il settore privato ed è giunta in concomitanza all’approvazione di un nuovo piano di riforma volto a consolidare il ruolo delle imprese di stato nell’economia cinese. Negli ultimi anni, una serie di “investimenti irrazionali” ha spinto le autorità ad assumere direttamente la gestione di colossi privati, come Anbang e HNA.
Cosa ne sarà di Ant?
Il vicepresidente della CSRC, Fang Xinghai, ha affermato che il futuro di Ant Group “dipende da come il governo ristrutturerà il quadro normativo in termini di tecnologia finanziaria e da come la società reagirà ai mutevoli requisiti normativi”. C’è chi sostiene che nella migliore delle ipotesi passeranno uno o due anni prima che la “formica” possa azzardare nuovamente un’Ipo. La reazione scomposta del governo potrebbe tuttavia avere ricadute impreviste per il mercato azionario cinese, mettendo in fuga gli investitori stranieri. Una preoccupazione che non sembra però interessare l’opinione pubblica cinese, ben felice che Ant sia stata richiamata all’ordine “dopo aver succhiato il sangue dai mutuatari cinesi per lungo tempo”.
A cura di Alessandra Colarizi
RCEP: ASIA NUOVO EPICENTRO DEL MULTILATERALISMO
Mentre buona parte del mondo si richiude in se stesso, tra protezionismo e minacce di decoupling, e gli Stati Uniti si ripiegano in una lotta interna che mette a repentaglio la propria stessa struttura democratica, l’Asia si propone come nuova roccaforte del multilateralismo. Questo almeno il messaggio che sembra arrivare dalla firma del RCEP, il Regional Comprehensive Economic Partnership, siglata domenica 15 novembre durante il summit ASEAN (l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico). Dopo aver contenuto, o persino prevenuto, la pandemia da Covid-19 in maniera spesso molto più efficace rispetto ai paesi europei e americani, l’Asia si candida a dare l’effettivo via al tanto chiacchierato secolo asiatico.
Che cos’è il RCEP e chi ne fa parte?
Il RCEP è il più grande accordo di libero scambio della storia. “Una bomba”, come l’ha definita Valerio Bordonaro, direttore dell’Associazione Italia-ASEAN, in una diretta Instagram con China Files. Ne fanno parte Cina, Giappone, Corea del sud, Australia, Nuova Zelanda e i dieci paesi dell’area ASEAN, vale a dire Cambogia, Laos, Vietnam, Thailandia, Myanmar, Filippine, Indonesia, Singapore, Brunei e Malaysia. L’India ha confermato la volontà di non entrare nel patto e si è tirata indietro, almeno per ora. Il RCEP copre circa il 30 per cento della popolazione mondiale (2,2 miliardi di consumatori) e, secondo gli analisti, aggiungerà quasi 200 miliardi di dollari di Pil all’economia globale entro il 2030. L’accordo crea un’area di libero scambio tra i 15 paesi coinvolti, abbattendo i dazi su circa il 90% dei beni (per esempio saranno eliminate sull’86% delle merci giapponesi esportate in Cina), e introducendo una regolamentazione comune in diversi ambiti, inclusi gli scambi commerciali, gli investimenti, la proprietà intellettuale, l’e-commerce e gli appalti pubblici. Restano però fuori il settore agricolo e non sono stati introdotti standard in materia ambientale e di diritti dei lavoratori. Il nuovo trattato entrerà ufficialmente in vigore dopo che almeno sei paesi ASEAN e tre paesi non ASEAN lo avranno ratificato.
Chi ci guadagna di più?
Gran parte dei media si è allineata definendo la firma dell’accordo come una vittoria della Cina. E in effetti il RCEP si inserisce alla perfezione nella nuova strategia economica della “doppia circolazione” pensata da Xi Jinping, principio cardine del piano quinquennale approvato il mese scorso dal quinto plenum del Partito comunista cinese. Pechino potrà far pesare il suo ruolo di primo attore protagonista dell’Asia Pacifico all’interno dell’area coperta dal trattato, provando a capitalizzare l’accesso privilegiato ai mercati regionali per una strategia di sviluppo integrata e più “soft” rispetto al solo ombrello della Belt and Road. Allo stesso tempo cercando di plasmare il suo ordine regionale nel lungo periodo. Ma c’è chi sostiene che i benefici commerciali per la Cina saranno marginali. Tra l’altro, come sottolinea Guido Casanova, il RCEP è stato concepito “nel Sud-est asiatico e questa è stata appunto la chiave del suo successo: difficilmente infatti l’accordo avrebbe potuto avere successo se fosse stato proposto da una delle grandi potenze asiatiche. L’area di libero scambio permetterà ai paesi dell’Asean di far leva sul proprio basso costo del lavoro per attrarre investimenti da parte delle imprese dei paesi più sviluppati”. Il Giappone cercherà, come preannunciato dal suo primo ministro Suga Yoshihide, di coinvolgere anche Nuova Delhi per riequilibrare un accordo che potrebbe diventare squilibrato a favore di Pechino.
Quali sono gli effetti sul piano globale?
Il nuovo accordo ha come primo effetto quello di mandare un messaggio preciso: l’Asia è pronta. Non solo a ripartire a livello economico, dopo una (per buona parte) efficace gestione sanitaria della pandemia, ma anche a livello politico e geopolitico. Gli attori dell’area non nascondono più le proprie ambizioni. Non solo la Cina, già ampiamente sulla scena globale sin dal lancio della Belt and Road, ma anche le altre potenze medie. In primis il Giappone. Significativo che l’accordo sia stato raggiunto nonostante le divisioni interne. Per esempio quelle tra Giappone e Corea del sud, da tempo ormai coinvolte in un contenzioso storico-diplomatico che è tracimato nella sfera commerciale. O ancora la mini trade war in corso tra Cina e Australia. “Segno del grande pragmatismo dei paesi asiatici”, come dice Bordonaro. Paesi che stanno costruendo le fondamenta di un’architettura al 100% asiatica nella quale si preparano anche a fare a meno di partner americano diventato improvvisamente imprevedibile. La Cina prova a presentarsi come campione del multilateralismo. Xi Jinping ha parlato al forum APEC, smentendo le possibilità di decoupling, e al summit BRICS, rassicurando i partner sulla volontà di cooperazione multilaterale. Il tutto facendo leva sull’esclusione degli Usa dal RCEP. Completamento di un percorso cominciato subito dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca e il sabotaggio del pilastro del Pivot to Asia di Barack Obama, vale a dire il Partenariato Trans-Pacifico.
A cura di Lorenzo Lamperti
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16/11 – Mar Cinese: l’America di Biden conferma il proprio sostegno al Giappone
17/11 – Xi nel Jiangsu per promuovere il nuovo modello di sviluppo
17/11 – Giappone e Australia si uniscono militarmente contro l’influenza cinese
18/11 – Hong Kong: il patriottismo prima dei valori democratici
18/11 – Huawei vende Honor “per sopravvivenza”
19/11 – Xi all’APEC tranquillizza sulla “doppia circolazione”
19/11 – Il sogno dei semiconduttori “made in China” fatica a diventare realtà
20/11 – La Cina sospenderà il servizio del debito per 23 paesi emergenti
20/11 – Il Vietnam guiderà la crescita dell’Asean
LA SETTIMANA DI CHINA FILES
LE RUBRICHE
Caratteri cinesi – La Cina invecchia (II parte)
Nei prossimi dieci anni, in Cina, l’industria della terza età vivrà una fase d’oro. Alcune istituzioni prevedono che questo mercato raggiungerà i 12,8 mila miliardi di yuan nel 2023. I cinesi tra i 60 e i 70 anni diventeranno a livello mondiale il più grande gruppo di consumatori ad alto patrimonio netto di servizi di assistenza. La seconda parte dell’inchiesta della Xinhua sull’industria della terza età. Traduzione dal cinese a cura di Beatrice Stancato e Alessandra Colarizi
Chinoiserie – L’arte della generazione del figlio unico
Asia. Una rubrica – Essere nudi: Ren Hang
Sinoitaliani – 4 chiacchiere con Shi Yang Shi
GLI APPROFONDIMENTI
L’influenza del governo cinese sui media europei
La ballata di Mulan e la strumentalizzazione nazionalistica
La Corea del Sud introduce nuove misure per frenare la nuova ondata di Covid
LE DIRETTE INSTAGRAM DI CHINA FILES
Dialogo con Valerio Bordonaro, direttore dell’Associazione Italia-ASEAN
L’AGENDA ASIATICA DI QUESTA SETTIMANA
LUNEDI’ 23 NOVEMBRE
Hong Kong: al via il processo degli attivisti Joshua Wong e Ivan Lam per aver assediato il quartier generale della polizia nel giugno dello scorso anno
MARTEDI’ 24 NOVEMBRE
Giappone: visita del ministro degli Esteri cinese Wang Yi
MERCOLEDI’ 25 NOVEMBRE
Thailandia: nuova manifestazione pro-democrazia a Bangkok
Hong Kong: atteso il discorso di Carrie Lam dopo la sua visita a Pechino
VENERDI’ 27 NOVEMBRE
Tik Tok: scade proroga concessa dagli Usa per l’utilizzo dell’app