A differenza di quanto avviene per gli istituti culturali di altri paesi, dal Goethe Institut al British Council, negli ultimi anni la natura e il ruolo degli Istituti Confucio sono diventati oggetto di critiche e attacchi in Occidente. La questione è stata sollevata inzialmente nelle università canadesi e statunitensi creando una sorta di “effetto domino” anche in Europa.
Il dibattito ruota intorno alle possibili interferenze sulla libertà didattica e scientifica degli atenei con i quali i Confucio collaborano. In Italia il tema è stato sillevato da diversi sinologi, come Maurizio Scarpari – che ha esortato la Ca’ Foscari a farsi promotrice di una politica meno dipendente da influenze esterne – e Stefania Stafutti, autrice di una lettera aperta apparsa sul Corriere della Sera il 16 dicembre scorso. Ma a cosa si devono queste polemiche?
In parte tali critiche sono senz’altro da attribuire alla crescente tensione politica e diplomatica tra la Cina e gli Stati Uniti, in parte alla natura stessa dei Confucio. Perché se è vero che anche altri istituti di promozione linguistica e culturale sono gestiti direttamente o indirettamente dai propri governi di riferimento, i Confucio operano posizionandosi all’interno degli atenei convenzionati e legandosi, nella maggioranza dei casi, alle strutture amministrative e contabili universitarie. Inoltre, è l’indirizzo politico della RPC a rendere “diversi” i propri istituti culturali: non è infatti da dimenticare che il sistema cinese si fonda sul principio dell’unità dei poteri e dunque su una pianificazione decisionale centralizzata che include anche la sfera culturale, una fortissima unitarietà sistemica e un completo controllo politico che rendono inevitabilmente gli Istituti una realtà non esente da legami con Pechino.
Questo filo rosso si manifesta nella guida stessa dello Hanban, l’ente affiliato al Ministero dell’Istruzione cinese di cui gli Istituti sono emanazioni: la sua azione è de facto attualmente guidata da Sun Chunlan, succeduta a Liu Yandong, due delle donne più potenti nella storia del Partito. Non sorprenderebbe quindi la rottura dal 2004 ad oggi di quasi 50 collaborazioni, spesso specchio del deterioramento delle relazioni tra paesi ospitanti e Cina. L’approvazione dello US National Defense Authorization Act e la più recente chiusura dell’ultimo Confucio superstite svedese sono solo alcuni degli esempi.
L’approccio duro di Washington che rende gli Istituti quasi delle ‘victims of the US policy shift’ non è l’unica strada percorribile: i Confucio italiani optano infatti per l’esercizio costante e necessario di “negoziazione” con la parte cinese, ancor più in ambito culturale che in quello didattico. Questo è quanto emerge dalle interviste effettuate ai co-direttori dei 12 Istituti italiani, o in alcuni casi ai responsabili amministrativi, che aspirano a fare dei propri Confucio delle piattaforme di confronto, di crescita civile e culturale. Il forte impegno degli Istituti all’interno della realtà locale, provinciale e regionale ne è una dimostrazione: si dialoga costantemente con biblioteche, teatri, sistemi museali, aeroporti ed Uffici del Turismo, offrendo il patrocinio a numerose iniziative del territorio e ampliando così i contatti tra le regioni e la Cina. Coinvolgere un pubblico sempre più eterogeno proponendo un’offerta culturale di alto profilo è l’obiettivo comune, così come intensificare l’attività di ricerca scientifica accademica superando l’immagine piuttosto acritica e stereotipata che Hanban offre di sé.
L’ipotesi di Istituti come meri centri di certificazione linguistica ed “erogatori di nozioni”, caldeggiata dall’Headquarters, non interessa infatti ai Confucio italiani che ritengono lo studio della lingua inscindibile dalla conoscenza della cultura e della storia del Paese in cui questa è parlata. Il fatto che nella maggior parte degli Istituti del territorio gli incarichi siano ricoperti da sinologi abili nel destreggiare la materia particolarmente sensibile, e quindi in grado di riconoscere la responsabilità politica dietro questa istituzione, ha reso possibile il compromesso tra l’attività prevista da Hanban ei propri parametri etici e morali.
Tuttavia, non mancano gli ostacoli alla comunicazione a cui si sommano le difficoltà gestionali e amministrative. Tra queste si evidenziano le lunghe tempistiche dell’Headquarters nell’erogazione dei fondi che pongono l’urgenza di trovare nuove forme di finanziamento e la farraginosa normativa che regola sia il reclutamento del personale esterno che la spesa degli atenei, spesso in contrasto con le esigenze operative degli Istituti. Infatti, nonostante il vantaggio che la natura associativa offre nello svincolarsi dalla burocrazia universitaria, sono solo tre i Confucio ad avvalersi di questo statuto, mentre la maggioranza si configura come “centri di ricerca” o “progetti quinquennali rinnovabili su consenso di entrambe leparti”.
Anche la predisposizione di spazi adeguati allo svolgimento delle attività non è affatto trascurabile, considerata la penuria di ambiente che affligge l’Università italiana e allo stesso tempo l’interesse dell’Hanban nell’adibire spazi idonei per la creazione di nuovi centri culturali facendo degli Istituti veri e propri hub di studi, ricerca e pubblicistica, come dimostrano i fondi stanziati a Macerata. Ad esempio, se a Venezia eventi, conferenze e mostre devono fare i conti con la storicità e la limitatezza degli spazi, a cui si aggiunge un fattore costo spesso insostenibile, ad Enna ci si scontra con le difficoltà logistiche del territorio che pongono sfide alla gestione della dislocazione dei corsi. Nonostante le non poche criticità, la buona riuscita degli Istituti italiani si deve al consapevole utilizzo del mezzo, ovvero alla capacità dei direttori di porsi come super partes tra forze che possono chiamare da due direzioni opposte. Il dialogo risulta infatti possibile, aperto e non soggetto a particolari pressioni.
Occorre tuttavia stabilire quanto l’attuale “stretta” sotto la dirigenza Xi influenzerà i margini di comunicazione e in che modalità l’operazione di rebranding recentemente avviata dall’Headquarter cambierà il volto degli Istituti. La manovra sembra dettata dai crescenti dubbi internazionali: sarà la nuova Fondazione non governativa “Chinese International Education Foundation” a rilevare da Hanban la gestione dei centri d’apprendimento della lingua cinese all’estero e a promuoverne lo sviluppo, evitando ulteriori imbarazzi agli Istituti.
Liberare i Confucio dalla gestione politica centrale penalizzerà il livello gestionale? Si tratterà di un’effettiva autonomia finanziaria e politica o di una mossa “di facciata”? In Cina il confine che separa privato e statale è spesso impercettibile. Ma al momento i sospetti sollevati all’estero non sembrano ostacolare il dialogo in Italia.
Di Veronica Strina*
*Avvolta dal fascino del maestro 孔子, compie i primi passi sulla Via confuciana come collaboratrice all’interno dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica di Milano, dove si laurea cum laude nel 2017 analizzando il Confucio dell’ateneo. Grazie a una borsa di studio in suo nome, vola a Shanghai ed è Venezia ad accoglierla al suo rientro, nonostante il “mal di Cina” la porti dopo poco tra i banchi della Peking University. A Ca’ Foscari si laurea con lode in Lingua, società e istituzioni della Cina contemporanea,ancora una volta con l’aiuto di Confucio.
**Questo articolo è tratto dalla tesi “Censimento degli Istituti Confucio in Italia” discussa nell’anno accademico 2019/2020 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Relatore: Renzo Cavalieri; correlatore: Giorgio Busetto.