In Cina e Asia — Xi ispeziona la guarnigione di Hong Kong

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La nostra rassegna asiatica quotidiana


Xi ispeziona la guarnigione di Hong Kong

Si è aperto all’insegna de patriottismo e della sicurezza il secondo dei tre giorni che Xi Jinping ha in programma di trascorrere a Hong Kong per celebrare il 20esimo anniversario del ritorno dell’ex colonia britannica alla mainland. Questa mattina il presidente cinese (nonché capo della Commissione militare centrale) ha ispezionato la caserma Shek Kong, situata nei Nuovi Territori, dove sono dislocati migliaia di soldati dell’Esercito popolare di liberazione (PLA). Una sontuosa parata — la più imponente dall’handover — ha coinvolto elicotteri Z8, veicoli per il trasporto di missili, auto blindate e carri armati leggeri. Mentre la cerimonia conserva sopratutto un valore simbolico, l’inclusione di un’unità logistica di supporto con base a Shenzhen e di truppe speciali — recentemente nominate da Xi a titolo onorario “compagnia modello per le operazioni speciali della guarnigione di Hong Kong” — parrebbe voler mettere in risalto la funzionalità del PLA in chiave anti-indipendenza, sebbene le regolari operazioni di sicurezza vengano svolte dalla polizia locale. Non a caso, dopo aver mantenuto per anni un basso profilo — imposto dalla Basic Law — la guarnigione ha cominciato ad ostentare un’insolita muscolarità sulla scia delle proteste degli Ombrelli. Da qui la decisione di rispondere al saluto di Xi (“salve compagni!”) con l’insolito appellativo di “presidente” — anziché il consueto “comandante” — in contravvenzione al consolidato protocollo.

Appena ieri, Xi aveva dichiarato che “Hong Kong è sempre nel mio cuore” e che il successo di “un paese due sistemi” si riscontra nella sostenuta stabilità e prosperità economica della regione amministrativa speciale. Il presidente cinese ha lodato il governo di Leung Chun-ying per il modo in cui è riuscito a gestire “importanti questioni politiche e legali”, “salvaguardando la sicurezza nazionale” — chiaro riferimento alla contagiosa propagazione di velleità indipendentiste tra la popolazione più giovane. Ma le incertezze sul futuro non intimoriscono Xi, che ha pronosticato “una nuova gloria” per Hong Kong, nonostante la tensione montata negli ultimi anni non accenni ad allentare. La visita — anticipata dall’arresto di una ventina di attivisti — è cominciata con le domande velenose dei giornalisti desiderosi di avere notizie sul premio Nobel Liu Xiaobo, scarcerato a causa di un tumore in stadio avanzato. Proprio in onore di Liu, ieri sera l’Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements of China ha organizzato una veglia in Statue Square, mentre nella giornata di sabato, la cerimonia di giuramento del nuovo Chief Executive Carrie Lam verrà seguita da manifestazioni pro-democrazia.

La Cina condanna la prima vendita di armi americane a Taiwan dell’era Trump

Si tratta di sette articoli diversi per un valore totali di 1,42 miliardi di dollari. L’accordo — reso noto ieri dal Dipartimento di Stato e in attesa della conferma del Congresso — comprende la fornitura di supporto tecnico per radar, missili anti-radiazione, siluri e componenti per missili SM-2. Secondo il portavoce Heather Nauert, la vendita di armi ha lo scopo di “aiutare Taiwan a mantenere una capacità autodifensiva sufficiente” e non implica un cambiamento di posizione nei confronti del riconoscimento americano del principio “una sola Cina”. Una spiegazione che non convince Pechino. L’ambasciatore cinese negli Usa Cui Tiankai ha affermato che “abbiamo espresso la nostra opposizione e ci avvaliamo del diritto di assumere ulteriori misure”. L’annuncio della vendita di armi, arriva all’indomani dalla decisione del US Senate Armed Services Committee di riavviare un programma di visite regolari da parte della marina statunitense nei porti dell’ex Formosa, che prevedrebbe inoltre assistenza per lo sviluppo di capacità belliche sottomarine.

Quella annunciata ieri è la prima fornitura di armamenti a Taipei da quando nel 2015 l’amministrazione Obama ha ceduto 1,8 miliardi di equipaggiamenti facendo infuriare il gigante asiatico.

Il Tesoro colpisce il business cinese con Pyongyang

Il Dipartimento del Tesoro americano ha introdotto sanzioni per due individui e una società cinese sospettate di fornire assistenza al regime di Kim Jong-un. La lista nera comprende Sun Wei, Li Hong Ri e la Dalian Global Unity Shipping Co Ltd. In una nota apparsa ieri in tarda serata italiana, il Tesoro ha inoltre fatto riferimento alle operazioni illegali di Bank of Dandong, considerata una dei principali canali attraverso cui la Corea del Nord ha ottenuto l’accesso al sistema finanziario americano. E’ la prima volta che Washington colpisce una banca cinese accusata di fornire aiuto a Pyongyang, impedendole di fatto di effettuare operazioni con società occidentali. Secondo il segretario al Tesoro Steve Mnuchin, l’operazione non va considerata come una punizione contro il governo di Pechino, ma il tempismo è sospetto: negli ultimi giorni il Trump e l’establishment americano hanno dato libero sfogo al loro malcontento nei confronti dell’infruttuosa collaborazione cinese, mentre fonti Reuters parlano della possibile adozione di misure commerciali “in rappresaglia”. Ora non resta che attendere il prossimo faccia faccia tra The Donald e il presidente Xi Jinping, destinati a incontrarsi nuovamente a margine del G20 di Amburgo.

L’ombra di Pyongyang sul primo incontro tra Moon e Trump

Un tweet riassume l’esito del primo incontro alla Casa Bianca tra Trump e Moon Jae-in. “Ho appena concluso un meeting molto buono con il presidente sudcoreano. Abbiamo discusso molte questioni inclusa la Corea del Nord e un uovo accordo commerciale”, ha scritto l’inquilino della Casa Bianca senza fornire ulteriori dettagli; oltre alla variabile nordcoreana, le relazioni bilaterali risultano turbate dalla recenti interruzione dell’istallazione del sistema antimissile americano Thaad, nonché da un accordo di libero commercio (KORUS FTA) all’origine di un ampio deficit commerciale, contro cui Trump si è scagliato con ferocia.

Qualche ora prima a Capitol Hill, Moon aveva chiesto appoggio bipartisan nella risoluzione della crisi con i cugini del Nord, sottolineando l’esigenza di “coinvolgere” Pyongyang in qualche forma di dialogo. Ma non è ben chiaro fino a che punto la posizione sudcoreana coincida con quella statunitense. Nella giornata di ieri il consigliere per la sicurezza H.R. McMaster ha dichiarato che, per non incorrere negli stessi errori delle precedenti amministrazioni, Trump è intenzionato a sviluppare un nuovo approccio che prevede anche la poco auspicabile opzione militare pur di raggiungere “l’unica soluzione accettabile”: la denuclearizzazione della penisola coreana. Meno drastica la proposta di Seul che giovedì per bocca del viceministro per l’Unificazione Chun Hae Sung ha offerto a Pyongyang un equo scambio: lo smantellamento dell’arsenale nucleare nordcoreano in cambio di un trattato di pace in grado di mettere finalmente fino a una guerra formalmente ancora in corso dagli anni ‘50.

Turismo o fuga di capitali?

La fuga di capitali cinesi continua ma sotto mentite spoglie. Secondo un’indagine della Federal Reserve, una fetta consistente della spesa effettuata dai cinesi all’estero — rubricata ufficialmente come “shopping turistico” — si sarebbe in realtà materializzata in investimenti nell’immobiliare e in asset finanziari, andando a spingere verso l’alto il surplus commerciale, di cui Trump accusa da tempo Pechino. Si parla di una cifra che a settembre potrebbe raggiungere quota 190 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno, pari all’1,7% del Pil. Stando alla Federal Reserve, le “spese di viaggio” hanno subito un’impennata anomala nel 2014, nonostante il rallentamento dell’economia cinese. Come fa notare la Reuters, questi flussi “mascherati” hanno diverse ripercussioni sul settore del turismo — che riceverebbe così meno di quanto ipotizzato sulla carta — e sulla stabilità finanziaria del gigante asiatico, che continuerebbe a vedere volatilizzarsi miliardi di dollari nonostante le crescenti restrizioni.

Intelligenza artificiale: Pechino ha pronta una roadmap

Pechino ha pronta una rodamap interamente dedicata allo sviluppo dell’intelligenza artificiale (AI) da qui al 2030. Lo ha dichiarato ieri durante il World Intelligence Congress il ministro della Scienza e della Tecnologia, che ha anticipato una suddivisione in quattro aeree dedicate rispettivamente all’acquisizione di tecnologia, ai metodi applicativi, alla tutela dei rischi e alla collaborazione internazionale. Sebbene non sia chiaro quanto Pechino sia disposto a investire, durante l’annuale riunione parlamentare di marzo si era parlato di un fondo speciale per la ricerca. Il segmento dell’AI sta vivendo un suo “Rinascimento” in Cina, per via delle multiformi applicazioni che tale tecnologia mette a disposizione, dal riconoscimento facciale alle autovetture con guida elettronica. Tutti e tre i colossi high tech cinesi — Baidu, Tencent e Alibaba — stanno puntando una fiche sul settore. Secondo un rapporto di PwC pubblicato all’inizio di questa settimana, entro il 2030 la Cina sarà il paese al mondo a trarre più guadagni economici dall’AI, che arriverà a contare per il 26% del Pil.