Dushanbe non è Biskek. Una settimana fa, dopo l’annuncio dei risultati delle elezioni legislative in Kirghizistan (ne avevamo parlato qui), sono subito cominciate le violente proteste che hanno portato all’annullamento del voto, alle dimissioni del primo ministro e alla (temporanea) liberazione dell’ex presidente Almazbek Atambayev. Ma adesso, il previsto plebiscito per Emomalī Rahmon alle elezioni presidenziali non ha (almeno per ora) avuto ripercussioni interne in Tagikistan.
Secondo le proiezioni della Commissione Centrale Elettorale il 90,9% degli elettori ha votato per Rahmon con un’affluenza dell’85%. Il presidente tagiko è al potere ininterrottamente dal 1992, vale a dire pochi mesi dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Si tratta del leader più longevo dell’Asia centrale e la sua vittoria alle elezioni di domenica 11 ottobre era solo una formalità. Gli altri quattro candidati (Miroj Abdulloyev del Partito comunista, Rustam Latifzoda del Partito agrario, Rustam Rahmatzoda del Partito per le Riforme economiche e Abduhalim Ghafforov del Partito socialista) rappresentavano un’opposizione solo simbolica. E la prossima presidenza, di sette anni, potrebbe anche non essere l’ultimo per Rahmon, visto che la riforma costituzionale del 2016 ha eliminato il limite dei mandati presidenziali.
Il processo iniziato in Kirghizistan la scorsa settimana, come ci ha raccontato (qui) Giulia Sciorati di ISPI, rischia di essere una “scintilla in una polveriera“. E il Tagikistan, “la repubblica centrasiatica più povera e di conseguenza maggiormente affaticata dalla pandemia, è ancora più a rischio di paesi come Kazakistan o Uzbekistan, economicamente più saldi, di uno spillover in questi termini”.
Per ora la situazione appare però calma. C’è da sottolineare che Rahmon è visto e si presenta come una figura di stabilità, l’unico in grado di garantire la tranquillità in un paese che ancora ricorda i cinque anni di guerra civile con i ribelli fondamentalisti musulmani che tra il 1992 e il 1997 aveva causato oltre centomila morti. Oggi il Tagikistan ha una fisionomia molto meno frammentata del Kirghizistan, sia a livello etnico sia a livello religioso.
In Kirghizistan le divisioni etniche e geografiche sono alcuni degli elementi alla base delle ripetute tensioni interne, che si riversano poi un sistema politico molto più aperto e concorrenziale di quanto non sia quello tagiko, dominato dalla figura di Rahmon.
A Biskek, nel frattempo, Sooronbay Jeenbekov ha imposto nuovamente lo stato di emergenza con un nuovo decreto dopo che il parlamento non era riuscito a discutere il precedente. Le divisioni all’interno del campo di opposizione sta favorendo Jeenbekov, che qualche giorno fa era dato per “scomparso” e sembrava vicinissimo al ritiro. Per ora, invece, regge. Le forze governative hanno ripreso il controllo del parlamento e dell’amministrazione presidenziale. E l’ex presidente Atambayev è stato riportato in carcere. La situazione è tutt’altro che risolta, ma è chiaro che se l’opposizione non riesce a fare fronte unito Jeenbekov potrebbe provare a diventare l’uomo d’ordine, spostando l’intero obiettivo sul parlamento.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.