Gli Stati Uniti hanno classificato gli Istituti Confucio (IC) “missioni straniere”, etichetta che per la prima volta sottopone i centri per l’insegnamento della lingua e della cultura cinese agli stessi requisiti amministrativi previsti per le ambasciate e i consolati stranieri. Il motivo lo spiega un comunicato del Dipartimento di Stato emesso nella tarda giornata di giovedì: gli IC – gestiti localmente dal Confucius Institute US Center (CIUS) – “promuovono la propaganda globale e l’influenza maligna di Pechino nei campus statunitensi e nelle aule K-12″, ovvero nei 12 anni di scuole elementari sino alla fine delle superiori. “La repubblica popolare cinese finanzia parzialmente questi programmi sotto la guida del Dipartimento del Lavoro del Fronte unito del Pcc,” specifica la nota, aggiungendo che le nuove misure, sebbene non implichino un’espulsione degli enti dal paese ma solo il rilascio di informazioni dettagliate su dipendenti e proprietà registrate negli Usa, serviranno a richiamare l’attenzione degli atenei ospitanti sulle attività condotte dagli istituti nei campus americani. In tutto sono 65 gli IC con sede all’interno di strutture universitarie locali, a cui si aggiungono altre 10 “organizzazioni autonome”.
A impensierire Washington è proprio questa natura di “insider”, che li differenza in maniera sostanziale dal British Institute e dal Goethe. Tanto che dal 2018 una disposizione del National Defense Authorization Act preclude a tutti gli atenei ospitanti l’accesso a fondi statali. Solo l’anno successivo, un’indagine della Commissione d’inchiesta del Senato riscontrava “problemi sistemici” nelle partnership sino-americane: scarsa trasparenza, la mancanza di “reciprocità” per le organizzazioni statunitensi oltre la Muraglia e, soprattutto, la crescente ingerenza del personale cinese sulla didattica delle università americane in chiave censoria.
Respingendo le accuse e promettendo contromisure, il ministero degli Esteri cinese ha attribuito la stretta sugli IC alla diffusione di “pregiudizi ideologici”.
Mentre le ultime misure paiono effettivamente rientrare nella cosiddetta nuova “guerra fredda” tra Washington e Pechino – regole simili sono state recentemente imposte ai principali media statali cinesi – negli ultimi anni, preoccupazioni condivise altrove hanno portato alla chiusura di diverse sedi (in tutto il mondo sono oltre 540) in Svezia, Paesi Bassi, Francia e Belgio, dove l’Università Vrije Universiteit Brussel lo scorso dicembre ha deciso di non rinnovare la collaborazione in seguito al clamoroso caso di Song Xinning, l’ex direttore del Confucio espulso dall’area Schengen con l’accusa di spionaggio.
Vedendosi sbarrare le porte, Pechino ha risposto con un’operazione di maquillage. Da giugno la gestione degli IC – un tempo amministrati e finanziati dal ministero dell’Istruzione attraverso la no-profit Hanban – è passata nelle mani dell’Ong Chinese International Education Foundation, un nuovo ente “privato” che risponde al dicastero attraverso un ulteriore gioco di scatole cinesi. Ma il restyling non sembra aver funzionato, almeno non negli States.
Ora il rischio è che il clima ostile costringa sempre più centri alla chiusura, lasciando un vuoto incolmabile dalle istituzioni americane. Negli ultimi 13 anni, l’Hanban ha destinato almeno 158 milioni di dollari all’insegnamento del mandarino negli Usa. Costi insostenibili per molte realtà locali proprio in un momento in cui servono scambi culturali per superare la diffidenza tra le due sponde del Pacifico.
[Pubblicato su il manifesto]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.