Nel corso di una conferenza esecutiva del Consiglio di Stato tenutasi lo scorso 22 luglio, il premier Li Keqiang ha fatto appello a nuovi sforzi per lo sviluppo di un nuovo modello di urbanizzazione. Tra i punti toccati nel corso della conferenza, il rinnovamento delle vecchie comunità residenziali urbane e lo sviluppo di industrie ad alta intensità di lavoro in prossimità delle zone rurali, al fine di scongiurare migrazioni di massa verso città già ampiamente affollate.
Già nel solo nell’arco di tempo 2011-2013, la Cina ha impiegato più cemento di quanto gli Stati Uniti ne abbiano usato in tutto il XX secolo. Un’impresa edile frenetica che tra i principali sostenitori vedeva proprio Li Keqiang, che già nella sua tesi di dottorato del 1991 si era dedicato alla spinta all’urbanizzazione e che nel 2014 ha condensato le sue idee nel National New-type Urbanization Plan (2014-2020), il piano di urbanizzazione sostenibile mirato ad innalzare il livello di qualità della vita nelle città, rilanciare i consumi e spingere i migranti interni ad abitare i centri di terza o quarta fascia.
Più nello specifico, il piano, in scadenza quest’anno, mira a ricollocare 100 milioni di abitanti rurali nelle città entro il 2020. La formula prevede impieghi più redditizi, maggiori consumi, maggior crescita. Pensato per ridurre la pressione sulle città di prima e seconda fascia, dove informalmente risiedono anche i lavoratori migranti, il piano è però ostacolato dalla reticenza di chi dovrebbe andare ad abitare città neonate e desolate, senza mercati efficienti ed opportunità allettanti. William Hurst, professore di scienze politiche presso la Northwestern University, sostiene che città o distretti costruiti senza domanda diano origine a “muri senza mercati”. Per ovviare a squilibri del genere, i governi locali hanno ricollocato uffici amministrativi, scuole e campus, nonché replicato opere architettoniche europee, provando a rendere le nuove realtà urbane più attraenti. A Zhengdong (Zhengzhou) per convincere la Foxconn ad aprire una fabbrica nel neodistretto, e creare così occupazione, sono state concesse decine di milioni di dollari di incentivi.
Il piano, inoltre, è stato lanciato prima dell’allentamento sull’hukou, il sistema di registrazione familiare che associa ad ogni cittadino, sulla base del suo luogo di nascita, assistenza sociale, sanitaria e scolastica e che limita dunque gli spostamenti della popolazione. Ma, sebbene le città di terzo e quarto livello offrirebbero, a differenza delle megalopoli, la possibilità di ottenere l’ambitissimo hukou urbano, l’idea di perdere alcuni privilegi legati all’hukou rurale – accesso a terreni agricoli e abitativi, compensazione per la cessione di terreni e un controllo delle nascite più rilassato – scoraggia i trasferimenti.
Sebbene ispirato ai successi di Shenzhen e di Pudong (Shanghai), che rispettivamente negli anni ’80 e ’90 furono destinatarie di investimenti urbani e politiche ad hoc, e che ad oggi sono tra le aree più prospere e moderne del Paese, gli esiti del piano includono ingenti debiti dei governi locali e un’incredibile quantità di edifici disabitati. Sono gli “elefanti bianchi” di nuove e moderne aree in cui, però, quasi nessuno vive: città “fantasma”.
Secondo The Diplomat la capienza abitativa delle nuove aree urbane sarebbe di 3,4 miliardi di persone. La popolazione cinese, però, ammonta a meno di 1,4 miliardi. Si parla dunque di overbuilding, di cui è esempio il distretto di Kangbashi (Ordos) che, progettato per 500.000 persone, ne ospita appena 150.000.
Tuttavia, sebbene come sostiene Bloomberg un quinto delle case cinesi sia vuoto, i prezzi degli immobili continuano ad essere molto alti. Di fatto coloro che acquistando il diritto d’uso delle nuove proprietà, i cosiddetti rentiers, spesso né le abitano né le affittano, ma aspettano che il valore dell’immobile salga per rivenderlo: speculazione. In assenza di una tassa nazionale sulla proprietà immobiliare, il piano di urbanizzazione ha contribuito alla crescita della bolla immobiliare cinese, favorendo l’acquisto di seconde e terze case che restano, però, vuote.
In conclusione, pur avendo trainato mercati di materiali, logistica ed energia, il piano cinese sembra aver dimostrato che l’urbanizzazione supporta la crescita, ma non la guida. Si potrebbe dunque dire che l’errore sia stato quello di mettere il carro davanti al cavallo.
Laureata in Relazioni e Istituzioni dell’Asia e dell’Africa, con specializzazione sulla Cina, presso l’Università L’Orientale di Napoli. Appassionata di relazioni internazionali e diplomazia scientifica, Fabrizia lavora a progetti di internazionalizzazione per startup e PMI di ambito scientifico-tecnologico. Ama viaggiare, scrivere e sperimentare le chinoiseries più stravaganti.