In cinese, l’estate si indica con il carattere xia 夏. Questo stesso carattere dà il nome alla dinastia arcaica Xia (date proposte 2205 -1767 a.C.), la prima che appare nella storia della Cina, e che secondo i testi canonici sarebbe stata fondata dal leggendario imperatore Yu il Grande. Se gli Xia siano veramente esistiti o se sono il frutto di una tradizione letteraria, è dall’inizio del ‘900 oggetto di diatriba fra sinologi e archeologi sia cinesi che occidentali. Risultato dell’evoluzione di clan neolitici? Mera invenzione autoctona per cercare di retrodatare il più possibile la nascita della civiltà cinese dato che per i Cinesi l’antichità era considerata l’età d’oro, la madre di tutti i punti di riferimento positivi? Certo è che gli Xia sono ancora oggetto di studi, e il ritrovamento di spezzoni di antichissime mura perimetrali appartenenti un agglomerato urbano alla confluenza tra il Fiume Giallo e il fiume Han, concorrono ad alimentare il dibattito visto che proprio in quel punto la tradizione situa la capitale degli Xia. Per ora l’enigma non è stato risolto.
L’estate cinese, dunque, ha il roboante nome di una dinastia fondatrice (vera o presunta), e come tutte le stagioni, è anche un periodo astronomicamente connotato le cui caratteristiche scientifiche, tecniche o semplicemente mitologiche hanno radici che affondano in tempi remoti.
Le più antiche teorie cosmologiche cinesi, che s’interrogavano sulla forma del cosmo, sulla disposizione dei corpi celesti, sulle loro misure e sui loro movimenti, erano tre; una di queste, la teoria Hun Tian 浑天 (cielo che avvolge) che risale al secolo IV a. C., ipotizzava che l’universo fosse una immensa sfera, il cielo, al centro della quale era sistemata la Terra che galleggiava sulle acque del mare; questa sfera era suddivisa in quattro settori corrispondenti ai quattro principali periodi dell’anno: primavera, estate, autunno, inverno. La divisione in quattro della sfera celeste fu una scelta stimolata dal succedersi delle stagioni, e comoda per gli antichi astronomi cinesi. Infatti, in queste quattro partizioni del cielo erano visibili quattro costellazioni che apparivano ognuna in una determinata stagione. Sistemate ai quattro punti cardinali, queste costellazioni sembravano costituite da sette stelle le quali formavano quattro figure di animali: in primavera a Oriente il drago, in autunno a Occidente la tigre, in estate a Sud l’uccello, in inverno a Nord la tartaruga. Una stagione aveva inizio ogni volta che in cielo appariva la costellazione (ossia l’animale) corrispondente.
La parte meridionale della sfera celeste era dunque occupata dall’immagine di un uccello enorme chiamato Zhu Niao 朱鸟 (uccello scarlatto), le cui stelle apparivano in estate; questo volatile altro non è che la fenice che nella cultura cinese tradizionale non ha niente a che vedere con la fenice della mitologia occidentale, e ha sempre simboleggiato la felicità coniugale. Nell’arte cinese, la fenice è spesso rappresentata assieme al drago: è la coppia formata dall’imperatrice e dall’imperatore, simbolo di perfetta armonia, di amore eterno, di connubio incorruttibile tra esseri predestinati al gaudio. Questa visione è talmente ancorata nell’immaginario collettivo che ancora oggi, in Cina, ai giovani sposi, per buon augurio si usa regalare vasi e altri oggetti su cui è raffigurata la coppia fenice-drago.
Andiamo a vedere più da vicino questo mitico uccello.
Se scorriamo la sua descrizione nell’antica letteratura, c’è da spaventarsi o da rimanere abbagliati dalla magica visione: la parte anteriore assomiglia al davanti del cigno, la parte posteriore al mitico animale qilin 麒麟 (mezzo cervo e mezzo cavallo, con il pellame a scaglie, simboleggia l’armonia e augura una illustre discendenza); la testa della fenice assomiglia a quella di un serpente, e la coda a quella di un pesce; il corpo è come quello della tartaruga e striato come il drago; il collo è come quello della rondine, e ha il becco di una gallina, e due ali. C’è da aggiungere che, sempre secondo i documenti cinesi, c’erano due diverse specie di fenici: la blu e la rossa. Ecco, se parliamo di estate, la rossa è quella che ci interessa.
Andando sull’ornitologico anziché sul mitologico, a parte l’associazione con l’uccello del paradiso che fu l’ipotesi più accreditata sino all’Ottocento, poi scartata, diversi sono i naturalisti e anatomisti che all’epoca della nascita delle scienze moderne si cimentarono per capire cosa veramente fosse la fenice. Cito per tutti lo svedese Carl von Linné (1707-1778) per il quale essa non esisteva, e il francese Géorges Cuvier (1769-1832) convinto si trattasse del fagiano dorato (Chrysolophus pictus).
Un’altra ipotesi è più suggestiva, e spiegherebbe l’associazione tra la fenice e la stagione estiva. Secondo il sinologo olandese Gustaaf Schlegel (1840-1903) fondatore nel 1890 assieme a Henri Cordier di uno delle più prestigiose riviste scientifiche dedicate agli studi cinesi, il T’oung Pao, l’uccello rosso associato all’estate, praticamente la fenice, è il Lophosphorus refulgens, una sorta di fagiano che viveva tra il Tibet e il Nepal; esso viene descritto con un piumaggio talmente serrato da riflettere la luce del cielo quando vola alto; inoltre, ha la testa e il collo di colore verde scuro, la parte inferiore della gola e la prima metà del dorso sono violetti; le ali e il resto delle piume blu metallico; la parte posteriore della schiena è bianca, la coda color ruggine, e sulla testa ha una corona di piume verdi dai riflessi dorati. Sarebbe stato il flusso migratorio estivo di questa specie di fagiani tibetani (ora dichiarata estinta) che avrebbe rivelato ai Cinesi, nell’antichità, questo splendido uccello che annunciava l’inizio dell’estate.
Per completezza: un’ipotesi più profana della precedente prende in esame non il fagiano bensì la comune quaglia che potrebbe rappresentare l’uccello rosso estivo. Questo spiegherebbe perché alcuni asterismi individuati dall’antica astronomia cinese, portino il nome di «testa di quaglia», «cuore di quaglia» e «coda di quaglia».
E così, tra lo svolazzo di un fagiano e di una quaglia, e la danza aerea e coloratissima di una fenice, siamo arrivati all’estate. Estate in Cina. Estate in Italia.
Di questo primo mese estivo assillato dalla pandemia c’è qualcosa che mi ha colpito particolarmente? Due cose. La prima viene dalla Cina: la legge sulla “sicurezza” con la quale la Repubblica Popolare Cinese ha tappato minacciosamente e definitivamente la bocca ai dissidenti di Hong Kong, mortificando gli aneliti di libertà di pensiero anche di quegli intellettuali o semplici cittadini per niente propensi a passare alle vie di fatto, neanche una pacifica manifestazione. La seconda è italiana: la frase di quel ragazzotto senza arte né parte ma che ha vinto alla lotteria, il quale, parlando di Mario Draghi – sì, proprio lui, Draghi, che è stato governatore della Banca d’Italia e presidente della Banca Centrale Europea – ha dichiarato in un’intervista: «Mi ha fatto una buona impressione». A Napoli si dice: anche le pulci hanno la tosse…
Se in Cina la responsabilità della legge repressiva tagliata su misura per Hong Kong è tutta sulle spalle della classe dirigente cinese visto che essa si autoperpetua senza un libero contraddittorio istituzionale, in Italia è diverso: la colpa delle pulci che hanno invaso la politica è di una parte degli italiani che si sono talmente riconosciuti in questi insetti parassiti, che li hanno votati autorizzandoli, così, anche ad avere la tosse.
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)