Sono notti insonni ad Hong Kong da quando il 28 maggio l’Assemblea Nazionale del Popolo, il “Parlamento” cinese, ha approvato la legge sulla sicurezza nazionale che verrà introdotta nella Costituzione della città senza consultazioni né col governo né tantomeno coi cittadini.
La legge, che prende di mira qualsiasi azione considerata terroristica o lesiva dell’ordinamento dello Stato e l’interferenza straniera negli affari interni, è vista da molti come l’inizio della fine per l’autonomia di Hong Kong.
Ma la notizia non era poi così inaspettata. La legge era sui tavoli di lavoro cinesi già dal 2003, ed era stata più volte presentata al Consiglio Legislativo della città per poi essere puntualmente rimandata a causa delle continue dimostrazioni di massa. Dopo più un anno di proteste e con l’immagine di Xi Jinping rafforzata sia in Cina che all’estero grazie alla gestione efficace della pandemia, era difficile ipotizzare uno scenario diverso.
Ma questo non consola gli attivisti: “sognavamo Taiwan e finiremo Macao” dicono alcuni studenti dell’Università Politecnica di Hong Kong. L’immagine richiama lo spettro di possibili posizionamenti tra la Cina continentale e le semi-autonomie che le orbitano attorno: da una parte la democratica e de facto indipendente Taiwan, “provincia ribelle” secondo Pechino, dall’altra la docile Macao, che gode dello stesso grado di autonomia di Hong Kong ma che in pratica non fa mai notizia.
Nonostante sia Hong Kong che Macao – e tecnicamente anche Taiwan – siano incluse nella dottrina “un paese, due sistemi”, la diversità delle loro esperienze storiche e di sviluppo le ha rese luoghi molto diversi dal punto di vista dei rapporti con Pechino.
A Macao, ex-colonia portoghese, al momento della cessione fu data la possibilità a chi non voleva sottostare al regime comunista cinese di lasciare la regione e trasferirsi in Europa. Il Regno Unito invece negò la cittadinanza britannica ai cittadini di Hong Kong, rendendo di fatto la resistenza al regime di Pechino un conflitto esistenziale. Importante anche la diversa traiettoria di sviluppo delle due città: Macao è economicamente più dipendente da Pechino rispetto ad Hong Kong, per la quale sono essenziali i rapporti con l’Occidente.
Il risultato è che a Macao la società civile è praticamente inesistente: una prospettiva accattivante per i leader cinesi che potrebbero star dimostrando, proprio in questi giorni, la volontà di uniformare Hong Kong all’ex-colonia portoghese.
La risposta di Hong Kong però potrebbe essere violenta: “l’opposizione deve essere forte e chiara, è fondamentale non perdere lo slancio” – dicono gli studenti della PolyU – “ormai non abbiamo più nulla da perdere”. Anche Demosistō, il partito fondato da Joshua Wong e dagli altri studenti che guidarono le manifestazioni pro-democratiche nel 2014, in una ufficiale richiesta d’aiuto lanciata sui social alla comunità internazionale, ha sottolineato la necessità di continuare ad occupare le piazze anche a costo della libertà.
Così il futuro a breve termine si profila come un braccio di ferro tra il governo centrale e i manifestanti. Variabile nascosta la risposta internazionale alla questione: gli Stati Uniti, da sempre strenui difensori dell’autonomia di Hong Kong, potrebbero sentirsi chiamati in causa dalla responsabilità assuntasi lo scorso novembre con l’introduzione dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act. Le dimostrazioni che hanno scosso Washington negli ultimi giorni, però, potrebbero costringere l’amministrazione Trump, la cui risposta a Black Lives Matter è stata per ora tutt’altro che accomodante, a rivedere la propria posizione circa le manifestazioni di dissenso all’estero.
Eppure, nel lungo termine – alcuni hongkongers sono convinti – la città non perderà la propria autonomia: “Hong Kong serve alla Cina più di quanto la Cina serva ad Hong Kong”. Mettere a sedere la società civile può salvare la faccia del Partito Comunista e ridare un senso di organicità storica agli avvenimenti dell’ultimo anno. Ma alla lunga, se Pechino vuole continuare a godere dei privilegi portati da Hong Kong come hub di scambio privilegiato, soprattutto alla luce dei crescenti screzi con gli Stati Uniti, dovrà silenziosamente rinegoziare la propria posizione.
Di Silvia Frosina*
**Silvia Frosina, nata a Genova nel 1996. Già laureata in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione all’Università di Torino, sta completando un Master in China Studies tra la SOAS di Londra e la Zhejiang University. Ha collaborato con Il Manifesto e con il capitolo londinese di NüVoices, un collettivo editoriale che investiga questioni relative a identità e parità di genere in Cina e Asia.