Nemmeno i divieti impediranno a Hong Kong di ricordare il massacro di Tian’anmen. Le usuali celebrazioni sono state cancellate su richiesta del governo – ufficialmente – per rispettare le misure anti-covid dopo l’emergere di nuovi contagi nella regione amministrativa speciale. Gli organizzatori della tipica veglia del 4 giugno hanno esortato i cittadini a raggiungere Victoria Park nonostante le restrizioni imposte dalla polizia, mentre piccoli di gruppi di non più di otto persone accenderanno candele in varie parti della città e alcune chiese terranno messe in ricordo delle vittime. Commemorazioni all’insegna del basso profilo, dunque, e con la consapevolezza che potrebbero essere le ultime. Nel giro di pochi mesi, nuove misure a tutela della sicurezza nazionale fortemente volute da Pechino potrebbero ridurre ulteriormente la partecipazione della società civile imbavagliando ogni forma di dissenso nei confronti del governo cinese. Intanto il parlamento locale è riunito per votare una controversa legge contro il vilipendio dell’inno cinese. Come ogni anno, Taiwan e Washington hanno invitato la leadership comunista a riflettere sugli errori compiuti e a riabilitare gli eventi dell’89 cancellati dalla memoria storica del paese. In un incontro a porte chiuse, Mike Pompeo ha ricevuto quattro leader del movimento studentesco per discutere il futuro della democrazia in Cina. Ma con le proteste per la morte di George Floyd in corso Pechino non accetta paternali dagli Stati Uniti. [fonte: NYT, SCMP]
Londra si prepara ad accogliere i cittadini di Hong Kong
Cresce la tensione tra Cina e Gran Bretagna. Le relazioni bilaterali, già messe a dura prova dal dossier Huawei, sono precipitate rapidamente da quando Pechino ha annunciato di voler introdurre a Hong Kong una legge sulla sicurezza nazionale senza interpellare il parlamento locale. La decisione, che Londra considera una violazione degli accordi pre-handover, ha spinto il governo londinese a minacciare di estendere la validità dei visti speciali per i cittadini britannici all’estero da 6 a 12 mesi lasciando intendere che potrebbe trattarsi di un primo passo verso la cittadinanza. A dichiaralo è stato nientemeno che Boris Johnson dalle colonne del Times e del South China Morning Post. Il ministro degli Esteri Dominic Raab ha annunciato di aver introdotto la questione ai paesi partner dell’alleanza Five Eyes (Stati Uniti, Australia, Canada e Nuova Zelanda) per un’eventuale condivisione degli oneri in caso di esodo dall’ex colonia inglese. Ma per Pechino la dichiarazione congiunta sino-britannica ha perso validità nel momento in cui Hong Kong è ritornata alla Cina. Ergo, da allora i rapporti con la mainland sono regolamentati esclusivamente dalla costituzione cinese e dalla Basic Law. Londra, shut up! [fonte REUTERS: SCMP ]
Tra Cina e USA è guerra dei voli
A partire dal 16 giugno, gli Stati Uniti bloccheranno tutti i voli dalla Cina in segno di ritorsione dopo che Pechino ha rifiutato di ripristinare le tratte coperte dalle compagnie aeree americane, sospese il 31 di gennaio per volere del governo Trump. L’annuncio di ieri – che riguarda Air China, China Eastern Airlines, China Southern Airlines e Hainan Airlines Holding – giunge dopo che Delta Air Lines e United Airlines avevano chiesto invano l’autorizzazione per ricominciare ad operare sui cieli cinesi. Nel mese di marzo, Pechino aveva introdotto delle restrizioni sul numero dei voli internazionali ma recentemente ha concesso l’aggiunta di charter per permettere ai cittadini cinesi ancora all’estero di tornare a casa. Secondo il Dipartimento dei Trasporti, così facendo “il governo cinese ha violato l’Air Transport Agreement”. La guerra dei voli rischia di gettare ulteriore benzina sul fuoco delle relazioni bilaterali. Con un gesto distensivo, questa mattina la Civil Aviation Administration of China ha annunciato che, dall’8 giugno, tutti i vettori stranieri qualificati potranno pianificare voli settimanali in una città cinese a loro scelta. [fonte Reuters, Bloomberg]
Anche a Mudanjiang tamponi per tutti
Mudanjiang come Wuhan. La città della provincia dello Heilongjiang al confine con la Russia, ha avviato un piano di tamponi a tappeto che dovrebbe coprire tutti i residenti nel giro di una settimana. Quasi 1200 medici di 23 ospedali sono stati incaricati di portare avanti i test. Con una popolazione di 2,5 milioni di abitanti. Mudanjiang era balzata agli onori della cronaca nel mese di aprile, quando una serie di casi importati avevano spinto il Consiglio di Stato a mandare una task force per monitorare la situazione. L’unica altra città cinese ad aver intrapreso un’impresa simile è Wuhan, che solo un paio di giorni fa ha annunciato di aver sottoposto a screening 10 milioni di persone. La campagna, costata 112 milioni di dollari, non ha mancato di attirare le critiche degli esperti, stando ai quali le risorse andrebbero investite nella realizzazione di test sierologici per determinare più chiaramente la diffusione del virus. [fonte: Sixth Tone]
Calunniare la medicina tradizionale cinese potrebbe diventare reato
Chi calunnia la medicina tradizionale cinese (TMC) potrebbe incorrere in responsabilità penali. E’ quanto intimato da un documento redatto congiuntamente dalla Commissione sanitaria municipale e dall’Amministrazione della medicina tradizionale, secondo il quale le autorità di pubblica sicurezza saranno titolate a gestire le violazioni dei nuovi regolamenti con attività che “fomentano dispute, provocano problemi e sconvolgono l’ordine pubblico”. Tuttavia, le linee guida -ancora in fase i discussione – non specificano quali comportamenti vengono ritenuti diffamatori. Il dibattito sull’affidabilità della medicina tradizionale cinese è tornato di grande attualità con l’epidemia da Covid-19. Secondo fonti ufficiali, le cure tradizionali sono state utilizzate per accelerare la guarigione del 90% dei pazienti affetti dal virus e lo stesso presidente Xi Jinping si è fatto promotore della TMC a livello internazionale introducendo il concetto di “via della seta sanitaria.” Ma, nonostante il patriottismo dilagante, l’ultima mossa di Pechino sembra troppo anche per l’opinione pubblica cinese. [fonte Sixth Tone]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.