Ho visto Hong Kong per la prima volta nel 1984. Sono arrivata con un volo da Pechino, dove studiavo da borsista all’Istituto di Lingue Straniere. L’atterraggio era da brivido: sembrava che l’aereo si lanciasse giù in picchiata tra i grattacieli e il mare e fino all’ultimo non riuscivi a vedere la pista. La paura si mischiava a un paesaggio mozzafiato e già questo arrivo sollecitava la fantasia e annunciava in qualche modo una realtà, una città, un’area unica rispetto al resto della Cina e del mondo intero. Nessun inquinamento atmosferico ancora, cieli azzurri, ville da favola situate nella parte più alta della metropoli, profumata dal vento marino come suggerisce il nome cinese di Hong Kong, Xianggang, Porto Profumato. Più in basso la città brulicante di commerci, negozietti, mercati, ristoranti, venditori ambulanti, antiquari. La baia di Aberdeen con il villaggio di pescatori e le sue giunche galleggianti, era ancora un luogo incantato, autentico, nient’affatto turistico come poi si è trasformato fatalmente negli anni. Era possibile mangiare sull’acqua , a bordo delle imbarcazioni, illuminate dalle lanterne.
Che Hong Kong sia stato uno dei luoghi più affascinanti al mondo e che per molti aspetti continui ad esserlo ancora è indubbio per una larga fetta di chi ha avuto la fortuna di risiedervi o di visitarla. Negli anni ’80 era una colonia britannica (tornerà alla Cina nel 1997 com’è noto), facilmente accessibile anche dalla Repubblica Popolare, soprattutto per gli stranieri che non avevano naturalmante limitazione alcuna di ingresso e di uscita dalla Cina continentale. Se si passava il confine in treno era impressionante il contrasto tra le quattro case sparse in mezzo alla campagna di Shenzhen, allora un piccolo villaggio, – oggi il centro tecnologico avanzatissimo da 13 milioni di abitanti – e, subito al di là della frontiera, il colpo d’occhio dello skyline disegnato dai grattacieli di Hong Kong, gia’ allora metropoli da 5 milioni di abitanti estesa principalmente in verticale.
Noi studenti andavamo in giro per tutta la Cina, spesso facendo la spola tra la mainland e il “porto profumato” alternando lo studio al lavoro come interpreti per le aziende occidentali. In effetti era tutto un via vai tra Cina e Occidente, scambi economici e commerciali che si andavano intensificando all’insegna dell’economia di mercato: la colonia britannica era il trampolino di lancio per la Repubblica Popolare, città costiera di estrema vitalità a ridosso del territorio cinese, prezioso affaccio verso Occidente, da quando il presidente cinese Deng Xiaoping grido’ al suo popolo “arricchirsi è glorioso”, nel dicembre del ’79, dando il via a una svolta storica, una provocazione d’impatto in un paese comunista, scossa galvanizzante per lanciare quelle riforme economiche che hanno creato nel tempo un esperimento unico all’interno di uno stesso paese: la convivenza tra ideologia di stampo marxista con il capitalismo
Oggi sembra passato un secolo da allora: il passaggio della colonia britannica alla Cina era sembrato in un primo momento piuttosto indolore: “un paese due sistemi”, la formula ideata da Deng Xiaoping insieme a Margareth Thatcher tutto sommato sembrava un compromesso accettabile per Hong Kong: una zona economica speciale, un’area protetta e privilegiata, un sistema giuridico ad hoc, la basic law, una magistratura indipendente, e una serie di agevolazioni che il Porto Profumato ha potuto mantenere fino ad oggi, consentendolgi di rimanere uno dei centri piu’ importanti della finanza mondiale. Uno stato di grazia che sembrava non dovesse mai finire, ma la storia va avanti e gli equilibri mutano.
E così la Cina ha cominciato a crescere a doppia velocità e la sua avanzata è apparsa sempre più minacciosa per i cittadini di Hong Kong, con la crezione della Greater Bay Area, tutt’intorno a Shenzhen, oggi capoluogo della Silicon Valley cinese, alternativa possibile alla funzione di Hong Kong per la Repubblica Popolare. Una pressione sempre piu’ pesante soprattutto per quella élite finanziaria che ha sempre visto i nuovi ricchi provenienti dalla Cina continentale invadenti, debordanti con il loro potere d’acquisto senza limiti: percepiti come intrusi che spadroneggiano nelle boutique d’alta moda, nei ristoranti di lusso, nei casino’, capaci di condizionare il mercato immobiliare spesso con operazioni di speculazione edilizia spregiudicata fino a far salire i prezzi delle case alle stelle. Sospese dalla pandemia, le proteste scoppiate a marzo 2019 per contestare una proposta di legge sull’estradizione ora riprendono per reagire a un’altra stretta, forse decisiva per il destino dell’ex colonia britannica: una legge sulla sicurezza nazionale che stronca sul nascere qualsiasi progetto di secessione.
Ma che Pechino dovesse trovare un modo per fermare la ribellione di Hong Kong è sempre stato chiaro, e che avesse programmato di avvicinarsi passo dopo passo alla transizione da “un paese due sistemi” a quello, piu’ in linea con l’impero rosso di Xi Jinping, di “un paese, un sistema”, era forse prevedibile, visto che tra l’altro il ritorno dell’ex colonia britannica alla Cina fu stabilito gia’ un secolo fa con le guerre dell’oppio nei cosidetti “trattati ineguali”, come i cinesi chiamarono allora l’iniqua spartizione di alcune porzioni di territorio del paese, vedi alla voce Hong Kong, finita sotto l’ influenza inglese. Ora che l’emergenza sanitaria sta ridisegnando gli equilibri della geopolitica mondiale facendo da acceleratore a molti processi già in atto, quel cammino che il governo della Repubblica Popolare aveva già intrapreso, prima che fosse il virus a fermare le manifestazioni di piazza nell’ex colonia britannica, inevitabilmente prosegue.
Nella sua lucida strategia pianificatrice, il PCC mantiene fede a se stesso, deciso a mantenere la stabilita’ del paese ad ogni costo, più che mai consapevole di non poter abbassare la guardia ne’ arrestare la sua corsa, in un momento in cui si affollano troppi cigni neri ad oscurare l’orizzonte della sua ascesa, proprio ora che il gioco si fa più duro, e l’ex celeste impero sembra diventato il nemico pubblico numero uno per il resto del mondo, con gli Stati Uniti che lo incalzano e lo attaccano da tutti i fronti possibili, bisognosi di un bersaglio per mascherare gli errori fatti a casa loro nel tentativo di gestire l’epidemia: oltre 100.000 morti, piu’ vittime dei militari americani caduti in missione dalla guerra di Corea in poi…un sistema sanitario che si e’ rivelato piu’ inefficiente che mai, per non parlare del caos senza precedenti in cui si trova Trump alla vigilia dalle elezioni di novembre , con la guerriglia urbana che si scatena contro la violenza della polizia e il razzismo che dilaga piu’ feroce di sempre. Due grandi potenze, una di fronte all’altra, USA e Cina, entrambe dilaniate da gravi problemi interni.
La Cina dal canto suo, messa in ginocchio dall’epidemia, con il pil ai minimi storici e milioni di disoccupati, per rialzarsi sembra paradossalmente costretta a rilanciare: con il passo dell’impero che per secoli ha caratterizzato la sua storia forse ancora una volta il Paese di Mezzo vuole gridare al mondo che non e’ un gigante con i piedi d’argilla. A costo di fare scelte che potrebbero rivelarsi un boomerang o un passo falso come nel caso di Hong Kong o di inasprire i toni alzando il tiro anche su Taiwan, lasciando intendere che la riunificazione della provincia ribelle alla madrepatria ci sara’, auspicabilmente pacifica, ma anche armata se mai dovesse essere necessario. Una logica riconducibile al Tian Xia, cio’ che sta sotto il cielo, il Mondo, l’Universo, in pratica la Cina, secondo l’espressione che arriva dalla cultura delle antiche dinastie imperiali, uno spazio senza tempo, quando la Cina, Zhongguo, Paese di Centro come dice il suo nome, era naturalmente il centro del mondo, guida politica e culturale per tutti gli altri paesi, i cui ambasciatori arrivati al cospetto dell’imperatore dai quattro angoli della terra dovevano offrirgli i doni piu’ preziosi in segno di sottomissione e tributo. Recuperato nell’era di Xi Jinping, il Tian Xia e’ un concetto tutto cinese, incomprensibile in Occidente, quell’idea riferita non solo a un’estensione geografica ma un concetto originale da “proporre come alternativa globale non al capitalismo ma all’Occidente tutto”, ha scritto Renata Pisu su Il Manifesto.
Quell’idea di One China ribadita in epoca piu’ moderna nel viaggio di Richard Nixon in Cina nel 1972 quando gli americani abbandonarono “la teoria delle due Cine” riconoscendo l’indivisibilita’ del paese e impegnandosi a ritirare tutte le forze militari da Taiwan. In cambio i cinesi riconobbero la supremazia statunitense nel Pacifico.
“Prima o poi ci sara’ la riunificazione”, rispose Zhou Enlai alla domanda di Kissinger sulla sorte dell’isola, “ma per almeno cento anni staremo tranquilli”.
Di Maria Novella Rossi*
**Maria Novella Rossi, sinologa e giornalista RAI tg2, redazione esteri. Laureata in Lingua e Cultura Cinese, Dottore di Ricerca su “Gesuiti in Cina”, è stata in Cina la prima volta con una borsa di studio del Ministero degli Esteri dal 1984 al 1986; quindi è tornata molte volte in Cina per studio e per lavoro; è autrice di servizi e reportage sulla vita e la cultura in Cina trasmessi da Tg2 Dossier e da Rai Storia. Autrice anche di reportage sulle comunità cinesi in Italia. Corrispondente temporanea nella sede di Pechino per le testate RAI in sostituzione di Claudio Pagliara, attualmente continua a occuparsi di esteri con particolare attenzione alla Cina e all’Asia.