Il giorno dopo l’approvazione della discussa legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong e più in generale dopo i toni accesi tra Cina e Stati Uniti, il discorso conclusivo dell’Assemblea nazionale del popolo del premier Li Keqiang prova a spegnere qualche fuoco che rischia di divampare.
Le parole, sensate, sagge verrebbe da dire, di Li Keqiang aprono anche uno squarcio su quanto sta accadendo, o si suppone stia accadendo all’interno del partito comunista cinese. Li, come Hu Jintao, il presidente cinese dal 2002 al 2012, appartiene alla fazione della Lega della gioventù comunista (i tuanpai), un’anima del Pcc messa in un angolo da Xi Jinping.
Non è un caso che nel decennio che ha preceduto l’arrivo di Xi al potere, proprio grazie alla fazione di Li, la Cina aveva messo in piedi misure di redistribuzione della ricchezza e tentativi di riequilibrare socialmente il paese, dando spazio anche a intellettuali e professori della cosiddetta «nuova sinistra». Un gruppo di persone che nel nuovo regno di Xi Jinping non ha più avuto alcuna voce in capitolo, mentre per i funzionari più in vista della Lega (come ad esempio Hu Chunhua considerato fino a poco tempo fa un astro nascente della politica cinese) Xi ha scelto ruoli marginali e di fatto l’oblio politico.
Per questi motivi le parole di Li Keqiang di ieri assumono un significato peculiare: potrebbe trattarsi di semplice tentativo di ridurre le tensioni a rischio escalation con gli Usa, oppure potrebbe trattarsi di un messaggio rivolto non solo alla comunità internazionale e a Washington ma anche all’interno del Pcc. «Se la Cina e gli Usa restano contrapposti – ha spiegato Li Keqiang – ciò danneggerà entrambe le parti e il mondo. Abbiamo sempre respinto la mentalità della Guerra Fredda». Li ha poi affermato che entrambe le parti potrebbero lavorare insieme, citando – come riporta Agenzia Nova – il colosso industriale statunitense Honeywell che ha recentemente aperto la sua sede cinese a Wuhan – città epicentro della pandemia di coronavirus – come esempio che entrambe le parti trarrebbero beneficio se cooperassero.
Si tratta di una risposta indiretta al proprio ministero degli esteri Wang Yi che nei giorni scorsi aveva parlato di rischio di «nuova guerra fredda»: «Ci sono differenze nel nostro sistema sociale, nel patrimonio culturale e nei precedenti storici; quindi alcune differenze, alcuni disaccordi e persino attriti possono essere inevitabili. L’importante è come gestiamo queste differenze. Dobbiamo usare la nostra saggezza per continuare a espandere gli interessi comuni e gestire adeguatamente tali diversità».
Su questo tenore anche le dichiarazioni sull’inchiesta sulle origini del virus chiesta a gran voce da Usa e un altro centinaio di paesi: la Cina, ha ricordato, è favorevole «a una indagine indipendente” sull’origine del virus».Non sono mancati i riferimenti alle questioni interne, con un riferimento particolare a Taiwan più che a Hong Kong: «La nazione cinese ha la saggezza e le capacità per gestire i propri affari: Taiwan è una questione interna del paese e la Repubblica Popolare si è sempre opposta alle interferenze esterne», aggiungendo che «I nostri principali principi e politiche su Taiwan sono coerenti e ben noti al mondo: il principio della Cina unica e del ‘consenso del 1992’. Su questa base politica, siamo pronti ad avere un dialogo e una consultazione con partiti politici e popolo di Taiwan sulle relazioni tra le due sponde dello Stretto».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.