In tanti ancora non sapranno forse individuarla sulla cartina, ma qualcuno in più ora sa della sua esistenza. Taiwan, Repubblica di Cina. C’è chi la chiama “l’altra Cina”. E poi c’è Pechino, che la ritiene una “provincia ribelle”. Comunque la si voglia definire, è innegabile che Formosa (un altro nome, “la Bella”, conferitole nel sedicesimo secolo dai mercanti portoghesi) abbia fatto parlare di sé come da molto tempo non accadeva. Le vie del coronavirus sono imperscrutabili (si spera non infinite) e dare giudizi definitivi è impossibili. Ma Taipei è nella ristretta lista di governi, per lo più asiatici (non un caso), che hanno saputo sfruttare la pandemia per aumentare il proprio soft power e consolidare la postura strategica.
Governo che mercoledì 20 maggio si rinnova, con il secondo insediamento da presidente di Tsai Ing-wen, dopo la vittoria alle elezioni dello scorso 11 gennaio. Alla vigilia è stato annunciato un mini rimpasto che nuovi ministri di cultura (Lee Yung-de) e di scienza e tecnologia (Wu Tsung-tsong), la commissione di supervisione finanze (Huang Tien-mu) e il consiglio di sviluppo nazionale (Kung Ming-hsin). Tsai inizia il suo secondo quadriennio presentando quattro punti d’azione: sicurezza nazionale, riforme democratiche, sviluppo economico e stabilità sociale. A parole, resterà aperta l’offerta di dialogo al Partito Comunista Cinese, ma la realtà è che le relazioni sullo Stretto sono a uno stallo di difficile, se non impossibile, superamento. Lo scontro degli scorsi giorni sulla partecipazione di Taiwan come osservatore all’assemblea dell’Organizzazione mondiale della sanità ne è un chiaro esempio: il PCC chiede il riconoscimento del “consenso del 1992” e del principio dell’unica Cina, Tsai e il Democratic Progressive Party (DPP) rifiutano qualsiasi precondizione e vogliono una relazione bilaterale che Pechino non è disposta a offrire. Un vicolo che rischia di diventare ancora più cieco con il processo di rinnovamento del Kuomintang che, dopo la sconfitta elettorale, ha un nuovo presidente Chiang Chi-chen. Han Kuo-yu, rivale di Tsai alle presidenziali, è stato messo da parte e rischia anche la poltrona di sindaco di Kaohsiung, seconda città dell’isola. Gli eredi del partito nazionalista cinese potrebbero essere costretti a rivedere la propria linea su Pechino e sul loro concetto di “unica Cina e diverse interpretazioni” per seguire il sentimento popolare e non rischiare la marginalizzazione, mentre nuovi partiti emergono, in primis il Taiwan People’s Party del sindaco di Taipei, Ko Wen-je.
Eppure, sembrava tutto impossibile solo un anno fa, quando il DPP aveva da poco perso le elezioni locali e la candidatura di Tsai (che aveva lasciato la presidenza del partito) appariva in bilico. Ma poi la presidente ha saputo sfruttare a suo vantaggio le circostanze e l’assertività di Pechino. In due occasioni. La prima sul piano interno, col voto di gennaio. Il discorso di Xi Jinping del 2 gennaio 2019, in cui il presidente cinese non escludeva l’utilizzo della forza per ottenere la riunificazione, e la crisi di Hong Kong hanno spostato il focus elettorale sul tema identitario, dando modo a Tsai di presentarsi come protettrice di Taiwan.
La seconda sul piano esterno, con la pandemia. Il primo passo è stato quello del contenimento del virus. Obiettivo ottenuto con successo, come accaduto (in modo diverso) in larga parte dell’Asia orientale. Drastiche e tempestive misure preventive verso l’esterno, come la chiusura delle frontiere agli stranieri (appena rinnovata fino a metà giugno, escluse poche fattispecie), mantenimento delle libertà personali all’interno. Uffici, scuole, trasporti, negozi non si sono mai fermati. Solo i grandi eventi pubblici come concerti o manifestazioni sono state cancellate, mentre lo sport si svolge a porte chiuse. Grazie anche alla natura insulare e agli insegnamenti tratti dalla SARS del 2003, ora Taiwan ha meno di 450 contagi e 7 morti ufficiali per il Covid-19.
Dopo una prima fase di contenimento epidemico, Taipei è passata a una forte estroversione diplomatica, con il lancio della campagna di aiuti “Taiwan Can Help” e un primo invio di 10 milioni di mascherine tra Europa, Stati Uniti e altri paesi colpiti dalla pandemia. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha pubblicamente ringraziato Taiwan per le donazioni. E diversi paesi europei, tra cui Francia, Germania e Regno Unito si sono esposte a richiedere la partecipazione di Taipei in qualità di osservatore all’assemblea dell’Oms. Risultato non ottenuto per il diniego di Pechino, con la discussione rinviata a data da destinarsi. Ma la vicenda ha comunque attirato molte attenzioni su Taiwan, soprattutto per il megafono impugnato sul tema dall’amministrazione Trump.
Gli Stati Uniti, impegnati in una guerra di propaganda con la Cina, stanno utilizzando Taipei come un’arma per colpire il rivale. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha protestato contro l’Oms (a cui Trump vuole cancellare i fondi) per l’esclusione di Taiwan e su Twitter si è congratulato con Tsai per il suo secondo mandato, sottolineando che Taipei gode negli Usa di un supporto “bipartisan e unanime”.
Dalla guerra di propaganda alla guerra tecnologica. Negli scorsi giorni, il colosso taiwanese TSMC, leader mondiale nella produzione di semiconduttori, ha annunciato l’intenzione di investire 12 miliardi di dollari per la costruzione di un sito di produzione in Arizona. Pur ricordando l’esempio di Foxconn, che ha finora disatteso gli annunci per una mega fabbrica in Wisconsin e continua a operare in Cina, si tratta di una mossa a dir poco rilevante. Nell’era della competizione strategica tra Washington e Pechino, la tecnologia non è solo tecnologia ma è anche geopolitica. Presto le imprese tecnologiche potrebbero essere chiamate da che parte stare. E, se il passo sarà confermato, TSMC potrebbe aver scelto. Tanto da aver sospeso i nuovi ordini di Huawei, che nel frattempo ha già iniziato a guardare altrove.
Dalla guerra tecnologica alla guerra fredda, con le esercitazioni del People’s Liberation Army, i passaggi di navi da guerra statunitensi intorno a Formosa e le voci sui media cinesi di una possibile invasione militare, messe a tacere dall’intervento dagli analisti di Pechino. Schermaglie che in realtà avvengono da diverso tempo, ma che ora, in un’era drammaticamente incerta, si fanno notare di più.
Così come potrebbe aver scelto TSMC, sembra aver scelto anche Taiwan. Nonostante le relazioni commerciali con la Repubblica Popolare siano sempre state, e siano ancora, estese e fondamentali alla tenuta economica dell’isola, Taipei si muove politicamente in un’altra direzione. Si tratta di un capitolo fondamentale, potenzialmente decisivo, per gli equilibri geopolitici che verranno. Taiwan, Repubblica di Cina. “Altra Cina”. “Provincia ribelle”. Al di là di come la si voglia definire, al di là di come la si definirà, è altamente probabile che nei prossimi anni molti altri impareranno a saperla collocare su quella cartina.
[Pubblicato su Affaritaliani]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.