Il 16 marzo 2020, da Berlino, dove vive, la scrittrice cinese Yan Geling scrive un saggio letterario sulla pandemia Covid-19. In esso prende in prestito tre parole da un’antica poesia della poetessa Tang Wan (1130-1156), “nascondere, nascondere, nascondere” (man, man, man), per descrivere l’atteggiamento delle autorità cinesi nei confronti di questa epidemia e le ingiustizie che hanno colpito alcuni dei suoi connazionali tra cui il dottor Li Wenliang.
Pubblicata su WeChat, il saggio è stato rapidamente censurato. O meglio, gli organi della censura hanno bloccato la circolazione virale del saggio in formato “testo”, ma non hanno potuto frenarne la diffusione in formato “immagine”. Il testo è stato poi ripreso da alcuni media della diaspora cinese tra cui il China Digital Times e il Berliner Bericht.
Il saggio consiste in una riflessione intima sulla crisi sanitaria legata all’epidemia Covid-19 in Cina, e sull’importanza di individuare le responsabilità di una tragedia umana che, per propagazione geografica e dimensione quantitativa, non è una fatalità.
Il testo analizza la “cultura della dissimulazione” (man wenhua), espressione utilizzata da Yan Geling in una recente conversazione per designare le menzogne e le mancanze del sistema cinese, e per indicare un certo modo tutto cinese (ma, al contempo, del tutto universale) di (non) affrontare l’evidenza della catastrofe imminente. Il tema, d’estrema attualità, è espresso con grande finezza letteraria e perspicacia nel captare una certa realtà socio-politica e la psicologia umana. L’approccio rende il testo universale e particolarmente evocatore per la situazione italiana. (lara maconi)
Guardo Wuhan da lontano. La primavera ha reso più verdi le rive del fiume Han. Ma è una primavera che molti non vedranno. È una primavera in cui troppe persone se ne sono andate senza poter ricevere un ultimo abbraccio. È una primavera mancata per i tredici milioni di cittadini di Wuhan.
Sono a Berlino, ma il mio cuore è con la gente di Wuhan. Mi sono auto-sequestrata, barricata dietro le inferriate del cancello di casa mia. E giorno dopo giorno, ho perso anch’io questa primavera. In giardino e ovunque attorno, sono sbocciati i fiori selvatici, e da poco sono fioriti i non ti scordar di me: una distesa azzurra di piccoli fiori, di un blu soave, ma triste. Non ti scordar di me, non ti scordar di me: come se sapessero che, alla fine, tutte le cose di questo mondo sono necessariamente transitorie e dimenticate. Ma chi non ha voglia di dimenticare? Se il nostro popolo avesse una buona memoria e ricordasse, una per una, tutte le avversità subite, il disco di archiviazione dei nostri ricordi sarebbe esploso già da tempo.
Questa è la mia terza settimana di auto-reclusione; in questo modo ho l’impressione di accompagnare nell’avversità gli abitanti di Wuhan, dello Hubei, e tutti gli amici, i compatrioti e la gente di tutto il mondo che si è già messa in isolamento. Sabato scorso, il baccano dello Stadio Olimpico a meno di cinquecento metri da casa mia ha fatto tremare il cielo: la solita partita di calcio. Un’esaltazione collettiva di decine di migliaia di persone che mi ha fatto ancor più desiderare di rimanere sprangata dietro le inferriate di casa mia.
Sono rimasta lì a guardare da lontano i tifosi di calcio di Berlino che urlavano passando oltre le mura del giardino, gettando a terra lattine di birra e sacchetti di patatine. Si perdona tutto con un sorriso a questi sostenitori che hanno messo in ferie civismo e educazione. Soprattutto quando si tratta dell’ultima volta prima dell’estate che possono darsi alla pazza gioia. D’ora in poi, tutti gli eventi affollati saranno annullati a Berlino. Sto già male per loro. È solo negli stadi che i tedeschi, d’abitudine così riservati e silenziosi, si lasciano andare gridando senza ritegno.
L’anno scorso, a fine dicembre, un amico dalla Cina mi ha inviato le prime notizie sul virus. Era uno screenshot di un medico che metteva in guardia le “sorelline infermiere”. Ho subito avvisato una mia amica di Berlino originaria di Wuhan. Sua madre e i suoi fratelli vivono tutti a Wuhan. Ma dubito che la mia amica abbia trasmesso con immediatezza le mie preoccupazioni alla sua famiglia.
Quando succede qualcosa ai cinesi, nascondono, nascondono, nascondono. L’ho fatto io, l’hai fatto tu, l’ha fatto lui, l’ha fatto lei, l’abbiamo fatto tutti noi, non è vero? Nascondiamo la verità per vari motivi, per non fare l’uccello del malaugurio, innanzi tutto, la qual cosa non è priva di buone intenzioni dopotutto. Ma nascondiamo la verità anche per evitare i guai, per non dovere affrontare l’orrore di coloro che hanno ricevuto la brutta notizia, la loro disperazione, la loro rabbia, e persino la loro isteria. Sono enormi fastidi che vogliamo risparmiarci.
Ecco perché solo coloro che hanno un senso delle responsabilità più forte delle preoccupazioni per i propri svantaggi personali possono prendersi il carico di dire la verità. Ma alla fine, la vera ragione per cui nascondiamo la realtà delle situazioni resta un mistero per me: perché poi nascondiamo la verità?
Per lasciare mangiare in pace il signor X, nascondiamogli questa brutta notizia! Per permettergli di trascorrere un buon Capodanno, nascondiamogliela fino alla fine della festa, poi si vedrà! Perché tutti possano stupidamente divertirsi nell’ignoranza e nell’incoscienza, gioiamo e facciamo finta di niente, tanto vale approfittare del momento presente! E poi, perché non sperare che con un po’ di fortuna i problemi nascosti scompaiano da soli? Che le grandi disgrazie, a furia di nasconderle, diventino piccole? Nascondiamole, nascondiamole ancora di più!
Ma questo virus misura solo tre micron. Una mano è enorme al confronto, immensa quanto la vastità del cielo, ma come riuscire a nasconderlo? Questo virus è talmente feroce e folgorante che sfugge via più velocemente di quanto si possa nasconderlo. A quante persone si è nascosta la verità? Quante sono morte e vengono a dirci, con la loro scomparsa, che la verità non va nascosta?
Prima che il dottor Li Wenliang se ne andasse, ho potuto seguire la sua agonia per diverse ore grazie alla mia amica di Wuhan e alle informazioni trasmesse da alcune conoscenze in quella stessa città. In quelle ore, ho pregato in silenzio per il dottor Li. Avevo anche fatto un voto: se il dottor Li fosse sopravvissuto, avrei smesso di bere il mio vino rosso preferito. Solo più tardi ho scoperto che anche quelle ultime ore erano state completamente nascoste.
Nascoste a tutti coloro che si ribellavano contro l’ingiustizia della sua sorte. Nascoste a sua madre, a sua moglie, a suo figlio, al bambino che sarebbe venuto al mondo pochi mesi dopo la morte del padre, e che era ancora nel grembo della madre. L’anno prossimo, in primavera o all’inizio dell’estate, quel bambino avrebbe dovuto balbettare per la prima volta “papà”. A quel pensiero, le gambe della nonna vacillavano: “Come farò a spiegargli tutto questo?”
I direttori dell’ospedale hanno nascosto l’ora esatta della morte di Li Wenliang. Pur sapendo che non sarebbe servito a nulla, hanno continuato a comprimere il petto del dottor Li con il pacemaker. Ma sotto quella pelle, c’erano le costole di un uomo! Non era fatto di cemento armato, il dottor Li. Come avrebbe potuto sopportare tutte quelle ore di stimolazione cardiaca? Anche se fossero riusciti a riportare in vita il suo cuore già freddo, avrebbe avuto le costole in frantumi come cocci di porcellana. Prima lo hanno costretto a umiliarsi, poi lo hanno ridotto in frammenti di giada. Tutto questo perché avevano paura dei superiori e della popolazione.
In alto, i dirigenti che avrebbero potuto rovinare la loro reputazione; e in basso, la popolazione che avrebbe potuto scoprire gli altarini. Durante quei due giorni, i cinesi, tutti i cinesi, ovunque si trovassero, all’unisono, hanno giurato di non dimenticare mai colui che ha lanciato l’allerta: Li Wenliang. Ma quanto durerà la sua memoria? Più a lungo dei non ti scordar di me?
Il dottor Li se n’è andato dopo aver subito un torto immenso. Si può uccidere un uomo di quella statura, ma non lo si può umiliare. Prima è stato insultato dai suoi superiori, poi dalla polizia, e infine è stato diffamato in pubblico su tutte le reti televisive del Paese. Come non sentirsi ingiuriato? La sua morte è lì per mostrare a tutti noi, a tutti coloro che lo hanno umiliato, ai presentatori televisivi che lo hanno denigrato, che la verità era davvero su quelle labbra socchiuse che non parleranno mai più; che era in quel cuore ormai freddo che non batterà mai più. Esiste qualcosa che può ferirci più di questa verità? Che può sferzarci di un dolore ancor più lancinante? Ha agito per il nostro bene! Come siamo potuti diventare questo popolo che non sa più distinguere il bene dal male?
I cittadini di Wuhan e tutti i cinesi l’hanno accompagnato nel suo ultimo viaggio al suono di una marcia funebre di fischietti. Come se con quei fischi, potessero liberare le loro anime imprigionate. Li Wenliang era un uomo qualunque: amava sua moglie, suo figlio, era un buongustaio. Come tutti i papà, era felice e riconoscente d’avere ottenuto l’autorizzazione d’avere un secondo figlio e di poter dare un compagno di giochi al primogenito. La sua morte è come quella di un santo: “Se non vado all’inferno io, chi andrà al mio posto?” Come un santo, si è sacrificato per illuminarci, per ottenere la redenzione dai nostri peccati. Perché tutto ciò non è forse un peccato?
La morte di così tante persone, la distruzione di così tante famiglie? Quando il peccato si manifesta a tutti i livelli, quando i limiti della natura umana portano ad accumulare errori a ripetizione, arrivati al livello più basso, si finisce per recludere un’intera popolazione a casa, si arriva a malmenare la gente, facendo morire di fame un bambino di meno di due anni; si finisce per interrompere brutalmente una partita di carte giocata in famiglia, così tanto per passare il tempo, per fare del male a tutti, uno per uno. Potremo dimenticare tutto questo? Difficile a dirsi.
Non riesco a immaginare che sintomi si provano quando questa polmonite ti prende la vita. Ma secondo i resoconti di molti medici, i pazienti più gravi si sfiatano per implorare aiuto: “La prego dottore, mi salvi!” Mi vengono in mente mia suocera e mio padre. Sono morti entrambi a più di ottant’anni d’insufficienza polmonare a seguito di un problema cardiovascolare. Ricordo mia suocera che supplicava sua figlia: “Per favore, salvami!” A quel punto, il livello di ossigeno nel sangue era sceso al 60%. Stava affogando, mentre gli altri la guardavano impotenti dalla riva. La morte per annegamento è breve: qualche decina di secondi ed è tutto finito. I pazienti con questa infezione polmonare, invece, soffocano per giorni interi. Ogni secondo è atroce e non degno di essere vissuto. Giornate intere, ventiquatt’ore su ventiquattro, di strangolamento, asfissia, soffocamento. Ore e ore, sessanta minuti ciascuna, di lotta contro la morte. Non oso pensarci, non oso nemmeno immaginarlo…
Eppure il viso di mio padre sotto la maschera d’ossigeno riappare continuamente nei miei pensieri, la bocca spalancata, il corpo protratto nello sforzo di ingoiare aria. Ma per quanto si sforzasse, l’ossigeno non arrivava più agli alveoli dei suoi polmoni. Aveva un aspetto pietoso.
Sembrava un pesce scaraventato a riva. Alla fine, mio padre è morto di anossia cerebrale. In realtà è morto strangolato, soffocato da un cappio invisibile. Ma non si è strozzato di un tratto. No. L’hanno torturato, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, per un giorno intero, per una notte intera. Se potessi scegliere oggi, deciderei di non fargli vivere quelle ventiquattro ore. Non gli farei subire quel passaggio degradante da essere umano a pesce morente. Visto che doveva andarsene, tanto vale che non soffrisse. Sono sicuro che una tortura simile si è ripetuta per tutti i pazienti di Wuhan e che questo è anche quello che ha subito il dottor Li Wenliang.
Durante gli ultimi istanti di vita, questi pazienti torturati a morte dai loro polmoni distrutti, cercano disperatamente con lo sguardo un volto familiare che possa dar loro coraggio, che venga a tener loro la mano, una persona a cui poter esprimere gli ultimi rimpianti. Ma nessuno è accanto a loro alla fine, nemmeno il calore di un palmo di mano. Sono impacchettati in sacchi mortuari, soli, come miseri stranieri in una terra sconosciuta. Che tristezza! Che orrore! Al momento finale, ciò di cui una persona non può fare a meno è la promessa di chi gli è vicino: “Vai in pace. Ti vogliamo bene. Non ti dimenticheremo.” Ma ai morti di Wuhan, nessuno ha fatto questa promessa.
Il dottor Li Wenliang non se n’è andato accompagnato dalle lacrime di sua madre, né dai richiami di sua moglie e di suo figlio. Le sue ultime parole sono ancora sul suo profilo Weibo, una pagina che la gente visita per non dimenticarlo, con la speranza di prolungare la sua vita in un’altra dimensione: l’immaginazione. Come dice Fang Fang, il suo blog è diventato il Muro del Pianto dei cinesi. Ho letto quei messaggi. La gente parla del più e del meno con Li Wenliang. Ci sono frammenti di conversazione, storie banali, di vita quotidiana, di cibo, d’amore, come se il dottor Li fosse diventato il loro psicologo o il simpatico vicino della porta accanto. Molte persone scrivono che non lo dimenticheranno mai. Spero veramente che questo Muro del Pianto invisibile che si frappone tra la vita e la morte non sia mai demolito. Spero che vivrà con tutti coloro che sono sopravvissuti e che sarà ricordato.
Berlino, dove vivo, è una città che rifiuta di dimenticare. Il selciato di molte strade è intarsiato di piastre di ottone su cui sono incisi l’anno, il mese, il giorno in cui un ebreo “Signor X” (o la sua famiglia), che viveva in quella stessa via, al n. X dell’edificio n. Y, è stato portato via… Anche la destinazione finale e il luogo in cui sono morti questi ebrei sono indicati. La maggior parte perì nei campi di concentramento. Non lontano da casa mia, la Flatowallee (via Flatow) che conduce all’ingresso principale dello Stadio Olimpico, prende il nome da due cugini ebrei che erano stati atleti olimpici.
Avevano concorso per la Germania alle Olimpiadi di Atene e avevano permesso alla squadra ginnica tedesca di vincere diverse medaglie d’oro. Eppure sono morti di fame in un campo di concentramento. Il nostro anziano vicino di casa sostiene che anche la mia casa era appartenuta a una famiglia ebrea. Ma nessuno è tornato a reclamarla dopo la guerra, nemmeno i parenti lontani. È stata quindi ceduta al governo che l’ha messa all’asta per essere finalmente riacquistata da qualcuno. La casa è stata costruita nel 1922. È stata ben progettata ed è molto solida, sicuramente si era previsto di trasmetterla alle generazioni future. Ma nessun membro della famiglia è sopravvissuto e nessun lontano cugino è stato mai rintracciato.
I libri della biblioteca dell’Università Humboldt sono stati bruciati dai nazisti. Oggi, quegli scaffali rimangono vuoti per ricordare l’ignominia degli autodafé: una specie di registro contabile dei debiti di sangue che i tedeschi devono agli ebrei e all’umanità. Tenere tutti quei conti è necessariamente doloroso per loro. Ma non farlo significherebbe, per loro, rinnegare il sentimento di vergogna nazionale per i torti commessi.
Onore e vergogna sono inseparabili. Senza senso di vergogna, non c’è senso dell’onore. I tedeschi preferiscono soffrire piuttosto che perdere la loro dignità. Pensano che solo ricordando l’ignominia si può impedire che si ripeta.
Dopo il sacrificio dell’informatore Li Wenliang, è comparso un altro whistleblower, la dottoressa Ai Fen: si era pentita di non aver diffuso più ampiamente l’allerta. Se l’avesse fatto, la situazione non si sarebbe deteriorata in quel modo. Se avesse saputo prima come sarebbero andate le cose, avrebbe preso il rischio di parlare senza alcuna remora. È una donna coraggiosa, un’eroina di Wuhan. La gente di questa città è tenace e valorosa. La tenacia è preziosa, il coraggio lo è ancora di più. Ci sono persone coraggiose a Wuhan. Hanno gridato “È tutto falso!” a quegli ipocriti, loro che non ne potevano più di soffrire di falsità.
Nascondiamo alle generazioni future i disastri del passato. Il più assurdo è che li nascondiamo persino a noi stessi. Ed è così che dopo aver sofferto di SARS diciassette anni fa, i cinesi si sono ritrovati alle prese anche con questo nuovo coronavirus. Nascondendo, non c’è bisogno di cercare responsabilità. Perché cercando, i responsabili si trovano. Ma senza individuare i responsabili, com’è possibile sperare di mantenere viva la memoria? Quando il senso profondo di una tragedia non è stato rivelato, cosa resta da ricordare? È così che siamo diventati un popolo con una cattiva memoria, ma con un’eccellente attitudine a dimenticare. Il massacro di Nanchino, i tre anni di carestia, la Rivoluzione Culturale: ce la mettiamo tutta per far finta che non siano mai successi. E quando non vogliamo nasconderli, siamo criticati per non essere abbastanza positivi.
Secondo alcuni, il fatto di non cercare la verità e di non portare rancore farebbero parte del nostro carattere nazionale “magnanimo”. Come se eccellessimo nel perdono e nell’indulgenza!
Siamo soprattutto diventati degli specialisti della dissimulazione. Ma non possiamo nascondere tutto alle generazioni future. Dobbiamo raccontare loro la verità senza nascondere nulla. Dobbiamo spiegare loro perché il dottor Li è stato umiliato, e come è morto.
Non possiamo nascondere che tutti gli wuhanesi, gli abitanti dello Hubei e l’insieme dei cinesi sono stati messi in gabbia anche se innocenti, che sono morti di malattia, gettati come indigenti nelle fosse comuni.
Non possiamo nascondere i centosettanta morti in Italia ieri. Dobbiamo porci la domanda: perché copriamo sempre coloro che ci brutalizzano? Perché nascondere la loro infamia?
Quante volte nella storia avrebbero dovuto essere loro a vergognarsi e chiedere perdono alla popolazione che avevano sacrificato? Eppure abbiamo sempre lasciato perdere. Tutte queste tragedie si sono concluse con un finale banale e confuso, per poi ricominciare poco dopo, in modo ancora più drammatico, con gli stessi episodi plagiati e sempre la stessa parola d’ordine: nascondere.
Se la nostra gente soffre, è perché per 2000 anni “non abbiamo avuto il tempo di piangere su noi stessi”. Ma così facendo, facciamo soffrire le generazioni successive che, una dopo l’altra, patiscono senza veramente sapere il perché.
Il poeta Du Mu aveva capito tutto molto tempo fa. Non è chiaro se avesse predetto l’“amnesia programmata” del passato o se ne avesse previsto l’“amnesia forzata”, ma è giocoforza costatare che le generazioni in grado di compiangere le avversità dei nostri padri si fanno sempre più rare.
L’AUTRICE: Yan Geling (Shanghai, 1958; vive attualmente a Berlino), prolifica scrittrice e sceneggiatrice cinese, conosce un primo folgorante esordio nella narrativa negli anni ’80, in Cina, con una serie di romanzi ispirati dalle sue esperienze giovanili di colonnello nell’Esercito Popolare di Liberazione. Nel 1989, in seguito agli eventi di Piazza Tiananmen, parte per gli Stati Uniti dove consegue un dottorato in scrittura narrativa (Chicago, Columbia College) e integra la prestigiosa Hollywood Writers Guild of America. La sua copiosa opera narrativa è stata tradotta in diverse lingue (inglese, francese, tedesco, giapponese, thai, ecc.). In italiano, si segnalerà la traduzione di I tredici fiori della guerra (Jinling shisan chai), romanzo pubblicato da Rizzoli nel 2012 (trad. Letizia Sacchini), adattato nel 2011 per il cinema da Zhang Yimou con il titolo The Flowers of War.
LA TRADUTTRICE: L’introduzione e la traduzione sono di Lara Maconi, sinologa e tibetologa, specialista di letteratura e di storia culturale sino-tibetana moderna. Ricercatrice associata presso il Centro di Recerca sulle Civilizzazioni dell’Asia Orientale (CRCAO) di Parigi, Lara insegna all’Istituto Nazionale di Lingue e Civilizzazioni Orientali (INALCO).
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