Lo sanno tutti: se a Natale si vuole fare un presepe degno di questo nome, i “pastori”, ossia le statuette dei personaggi, compresi di arredi e decorazioni, devono essere presi a Napoli nelle rutilanti botteghe e bancarelle che costellano via San Gregorio Armeno, più nota come “vicolo dei pastori”. Ora, io dico “pastori” perché a Napoli li chiamiamo così, ma non è detto che in quella viuzza si vendano solo le rappresentazioni di pastori – lavoratori dediti alla pastorizia, per intenderci – e neanche soltanto le effigi tridimensionali di popolani, contadini, sottoproletari e proletari, quell’umile popolo, insomma, che nell’anno zero seguì la cometa con gli occhi spalancati per la meraviglia, e che li spalancò ancor di più quando si trovò di fronte il Bambinello nato al freddo e al gelo, e la sua Sacra Famiglia, riscaldati dai termosifoni ambientalisti per eccellenza: il bue e l’asinello. In quei negozietti, su quelle bancarelle di San Gregorio Armeno, altro che pastori, altro che Sacra Famiglia! Si trova di tutto, si rischia l’apostasia… Da Maradona al Presidente della Repubblica, da politici ignoranti e non a influencer (in genere ignoranti), da cantanti famosi a divi del cinema, da Totò a Bebe Vio. E poi: capre, maiali, galline, oche, cani, gatti, laghetti, corni portafortuna, Pulcinella con cembalo, Pulcinella con mandolino, Pulcinella che mangia spaghetti con le mani, Pulcinella di qua, Pulcinella di là, modellini di pizzerie straripanti di pizze – questo è comprensibile – e di clienti che bisbocciano, fruttivendoli in miniatura con banchi ricolmi di ogni bendidio, pescivendoli che espongono tante di quelle specialità ittiche che neanche Nettuno saprebbe riconoscerle, piccoli mulini con la ruota che gira, eleganti case patrizie dove si fa festa, palazzi diroccati, umili dimore, salsicce e salami appesi sopra il capo di macellai armati di mannaia. E via dicendo.
Lungo il vicolo dei pastori, a pochi passi dalla chiesa dove fu battezzato il filosofo Giambattista Vico, a un salto dalla casa natale – o almeno così vuole la tradizione – di san Gennaro, e a pochi numeri da quella dove nacque il giornalista, drammaturgo e antifascista Roberto Bracco, ci sono gli immobili segnalati dai numeri 29 e 48. Nel 1804, al 29 abitava tale Gennaro de Turris, e al 48 aveva sede la tipografia à la page di Angelo Coda, celebre anche per i suoi trattati scientifici, talmente importante che servì i Borbone, i Francesi – che per ampliarla la spostarono all’interno del vicinissimo monastero di San Gregorio Armeno che avevano sconsacrato – e ancora i Borbone dopo la restaurazione. Se di Angelo Coda si conoscono le gesta editoriali, di Gennaro de Turris (chi era costui?), sappiamo soltanto che nel 1804 finanziò lo stampatore Coda perché pubblicasse un saggio del medico Francesco Calabrò Anzalone. Questo testo, di centosessanta pagine, è intitolato «Dell’oppio».
Sull’oppio, un’accesa diatriba furoreggiava dal Cinquecento tra erboristi, medici, fisici, accademici. La questione che li animava si può sintetizzare con la domanda: l’oppio fa bene o fa male? C’era chi affermava che l’oppio – il Fico dell’Inferno – era “caldo” e per questo brucia, eccita la sete, esalta l’animo, stimola sessualmente, provoca prurito e sudore. Dunque fa male. I frigidisti, al contrario, tiravano in ballo le proprietà soporifere e anestetiche della sostanza per dimostrare che era composto da «sedici parti fredde e una calda», cosa che giovava alla salute. C’era, poi, chi salomonicamente affermava che l’oppio non era né freddo né caldo, ma “tiepido”.
Una sponsorizzazione sulla sua utilità in medicina e sul benefico meccanismo di azione che aveva sui viventi, venne dal medico scozzese John Brown (1735-1788) che fece seguaci in Europa: la maggior parte delle malattie sono asteniche (dovute a debolezza) e bisogna curarle con prodotti stimolanti, e fra essi l’oppio. Il libro di Calabrò Anzalone, pubblicato nel vicolo dei pastori, segue proprio la dottrina browniana. Infatti, vi si afferma: «… l’oppio non è veleno… Veleno è il vino il più puro, veleno l’acqua più cristallina, … veleno sarà Venere, … la gioia, … il pane…», insomma tutto è veleno se se ne abusa. Ed ecco che l’oppio, preso in giuste dosi «accelera la circolazione, riscalda il sangue e lo rarefà» favorendone la fluidificazione e fornendo un effetto antifebbrile spiegabile anche con il fatto che tutte le febbri sono asteniche – come vuole Brown – quindi la medicina adatta a debellarle deve essere uno stimolante. E l’oppio è stimolante e non sedante e stupefacente; e serve contro le emorragie, i dolori, «i profluvi ventrali, l’asma, il catarro, la tisi, l’idropisia, la malinconia, la mania, la tosse, le malattie veneree ecc.»
La dissertazione sull’oppio di Calabrò Anzalone ricorda molto da vicino un’altra trattazione che dell’oppio si fece nel XVI secolo ma non a Napoli, bensì in Cina: parlo del Bencao Gangmu 本草纲目 (Compendio di materia medica) redatto da Li Shizhen 李时珍 (1518-1593), erborista medico e naturalista cinese. L’opera monumentale, ricca di 1109 illustrazioni e 11.000 prescrizioni, stampata in Cina per la prima volta nel 1596 (epoca Ming 明) a cura dei figli di Li, è a tutt’oggi il più completo trattato di medicina tradizionale cinese. Quando vi si legge dell’oppio, ecco le analogie con Francesco Calabrò Anzalone.
Cominciamo con le sue caratteristiche, o meglio il suo qiwei 气味 (odore-sapore). Secondo il farmacologo cinese, i semi del Papaver somniferum sono «…per natura freddi … eliminano il caldo nocivo muovendo i venti e i pneumi, sono ottimamente prescrivibili per nausea e vomito, diarree mucose e sanguinolente.» Le capsule sono «leggermente fredde … arrestano le diarree, favoriscono il riassorbimento dei prolassi rettali, curano le polluzioni e le tossi croniche, esercitano un’azione fissatrice nei polmoni e astringente sul tubo intestinale; curano tutti i dolori del cuore, dello stomaco e delle articolazioni.» Li Shizhen però avverte: le capsule del. Papaverum somniferum hanno un effetto rapido, dunque esse possono essere «…micidiali come spade, e sarebbe opportuno andare molto cauti nel loro impiego.» Le terapie che Li prescrive utilizzando le capsule sono scrupolose sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, e ognuna è specifica per un ben determinato malanno. L’oppio vero e proprio, ossia il succo del Papaverum somniferum, il cui qiwei è classificato nel Bencao Gangmu come acido, astringente, tiepido, leggermente tossico, ed è indicato per le diarree perniciose (con muco e sangue), i prolassi rettali cronici, le tossi croniche, le cefalee la malaria, i dolori al basso ventre, ecc.; inoltre, può «esercitare un’azione astringente per lo sperma.» L’oppio non si deve prendere da solo ma associato come decotto o come enolita (nel vino caldo) con aggiunta di altre specie vegetali come aceto, zenzero, finocchio, rami di salice; se bisogna inghiottire i grani della droga, si usa vino caldo. Per evitare che i miei neanche venticinque lettori si cimentino in preparazioni fai-da-te (come, a esempio, dati i tempi che corrono, l’amuchina fatta in casa) o si diano da fare con l’oppio per curare una tosse sospetta, evito accuratamente di fornire le minuziose ricette di Li Shizhen.
Non ho ancora prove che ci sia una relazione diretta tra il testo di Francesco Calabrò Anzalone e quello di Li Shizhen. Però, qualche pista continuo a percorrerla, convinto e speranzoso che prima o poi si possa provare l’influenza della cultura medica cinese sul mondo accademico napoletano dei secoli XVIII e XIX. Infatti, all’epoca di Calabrò Anzalone, operava a Napoli, da circa un settantennio, il Collegio dei Cinesi (fondato da Matteo Ripa) che per sua vocazione era diventato in Occidente il primo centro, di cultura orientale. Creato per educare giovani cinesi a diventare preti per poi rimandarli come missionari nel Celeste Impero, il Collegio vantava una biblioteca sinologica comprensiva dei primi dizionari di lingua cinese, e una consolidata tradizione di expertise sulla Cina che faceva sì che proprio al Collegio dei Cinesi fossero affidati da molti Stati, in primis quello della Chiesa, documenti da tradurre. Ricordiamo che, nel tempo, il Collegio dei Cinesi si è trasformato e, attualmente, l’erede istituzionale è il prestigioso Istituto Universitario Orientale di Napoli.
Ritornando all’oppio e facendo il percorso a ritroso fino al punto di partenza, ci ritroviamo ai numeri 29 e 48 del vicolo dei pastori, in pieno centro antico di Napoli. E, trovandoci nel cuore greco della città, lì dove tutte le tradizioni partenopee hanno avuto inizio (persino l’usanza delle statuette – antenate dei “pastori” – da offrire a Cerere il cui tempio sorgeva dov’è il monastero di San Gregorio Armeno), non possiamo non consultare la Smorfia Napoletana che associa i numeri a situazioni e a sogni. Il significato del numero 29 potrebbe sembrare volgare: «’O pate de’ ccriature», ossia il padre dei bambini, cioè l’organo sessuale maschile; ma volgare non è visto che nella tradizione greco-romana Priapo, il dio dal fallo gigantesco rappresentato in pitture e mosaici, era venerato come la divinità protettrice della fertilità; quanto al 48, esso è «’O muorto che pparla», il morto che parla, molto apprezzato se appare in sogno a dare i giusti numeri del lotto.
Voilà, dunque, l’auspicio di questa Pillola ai tempi del coronavirus: tenere care la vita e la sicurezza, ossia collaborare per lo sviluppo positivo di una situazione che oggi è ancora critica ma che ci metteremo presto alle spalle. Ne sono sicuro.
E quando, con l’approvazione delle autorità si potrà uscire di casa, oppure oggi stesso on-line, anche se siete scettici non dimenticate di giocare sulla ruota di Napoli il 29 e il 48. E se volete strafare, visto che l’anno di pubblicazione del Bencao Gangmu è il 1596, giocate anche il 15 («’o guaglione», il ragazzo), e il 69 (il suo significato lo conoscete già e, letteralmente, vuol dire «sott’e ’ncoppa», sottosopra). Quest’ultimo numero è lo speculare di 96 che è impossibile da giocare (nella Smorfia e nella tombola i numeri arrivano fino a 90).
Riassumendo, ecco i buoni numeri: 15, 29, 48 e 69. Una quaterna secca contro una seccante quarantena.
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)