Mai come in questo periodo sono fischiate le orecchie agli abitanti di Wuhan 武汉, capitale della provincia Hubei 湖北, al centro della Cina. Non passa giorno senza che in radio o in tv, per strada o al supermercato, in ascensore oppure in ufficio, dal coiffeur o portando il cane a spasso, da noi non svolazzino per l’aere questi due caratteri o sinogrammi, wu 武 e han 汉, il più delle volte pronunciati in modo incomprensibile per un cinese.
Il motivo dell’attualità di Wuhan lo conoscete tutti, e dato che io su questo motivo do cittadinanza di parola soltanto a coloro che ne sanno di scienza, non lo evoco neanche perché non voglio fare il gioco dei ministri della paura che si crogiolano nel twittare le foto della loro bocca sporca di marrone a causa della Nutella o, magari, delle sciocchezze (marroni, appunto) che emettono.
La città di Wuhan fu inventata nel 1927 quando le tre città che si affacciavano alla confluenza fra i fiumi Han e Yangzi furono raggruppate in un’unica unità amministrativa. Le città erano Wuchang 武昌, sulla sponda meridionale dello Yangzi, e Hankou 汉口e Hannyang 汉阳 su quella settentrionale, separate fra loro dal fiume Han. Ed ecco che a wu, il primo carattere di Wuchang fu accostato il carattere han, primo carattere sia di Hankou che di Hanyang: così fu battezzata Wuhan 武汉. A cavallo tra Ottocento e Novecento, le tre città erano cresciute in fretta grazie alla ferrovia Pechino-Hankou costruita nel 1905, finanziata da inglesi e francesi, e i cui lavori erano stati diretti da un belga. Si era in pieno periodo coloniale, e i profitti di questa linea ferroviaria andavano ai finanziatori, così come quelli delle altre ferrovie: dello Shandong (tedesca), della Manciuria (russa), di Mukden (inglese).
Tra il 1910 e il 1911, il malcontento e il risentimento della popolazione – costituita da operai, barcaioli, soldati politicizzati e disoccupati – si espressero in manifestazioni contro la corte imperiale Qing (dinastia straniera dei Manciù) che continuava a vendere concessioni ferroviarie agli stranieri, a decretare insopportabili tasse, a imporre alle donne Cinesi (ma non alle Manciù) la tradizione dei piedi fasciati. Non è dunque un caso se fu proprio ad Hankou che scioperi e boicottaggi diedero l’inizio alla rivoluzione repubblicana. Il 10 ottobre del 1911 (i Cinesi ricordano questo giorno come “il doppio dieci” che equivale al 14 luglio per i Francesi), una esplosione accidentale di una bomba nelle mani di un gruppo di rivoluzionari che preparavano un attentato, semidistrusse la fabbrica russa di tè Litvinhoff Brick Tea Factory, e uccise diversi componenti del gruppo. Per gli accordi sull’extraterritorialità la polizia non sarebbe potuta intervenire perché la deflagrazione era avvenuta in un territorio dato in concessione agli stranieri, ma siccome i danni erano notevoli e l’incendio che ne era conseguito stava debordando, le forze dell’ordine cinesi irruppero sul luogo e recuperarono documenti e fecero prigionieri. Vistisi in pericolo, tutti i gruppi rivoluzionari dell’area urbana e di quella circostante, conversero su Wuchang e convinsero l’ottavo battaglione genieri dell’esercito ad aderire alla loro causa. All’alba del giorno seguente, l’11 ottobre, furono sparati i primi colpi contro la polizia e le truppe imperiali, ed ebbe l’avvio la rivoluzione che poi fece cadere la dinastia e istituire la Repubblica.
Una trentina di anni dopo, quando Wuhan era ormai una realtà amministrativa ben consolidata, fu Mao Zedong in persona a mettere la città sotto la luce del Sol dell’Avvenir. Nel giugno del 1956, infatti, sfidando i parassiti vermiformi che danneggiano il sistema sanguigno, le lumache portatrici di schistosomi, e i serpenti velenosi che infestano lo Yangzi nel tratto di Wuhan, Mao si gettò nelle acque del fiume e in due ore lo attraversò a nuoto per dimostrare la sua determinazione e il suo coraggio, in altre parole per sigillare la sua leadership. C’è da dire che Mao fu seguito nel fiume da un gran numero di nuotatori di scorta (quaranta guardie del corpo, medici, segretari del Partito e cortigiani vari), dal vaporetto “L’Oriente è Rosso” che usava per i suoi viaggi fluviali, otto imbarcazioni di sicurezza e quattro navette di soccorso. Ciò non toglie che l’avvenimento fu un importante strumento di propaganda e, come titolò Le Monde in un articolo del 30 luglio 2011, inaugurò una nuova funzione della natazione: «Il nuoto come arma politica»: l’esempio di Mao fu seguito a ruota dai dirigenti cinesi che spesso e volentieri, negli anni seguenti, si esibirono in nuotate “rivoluzionarie”, e impresse uno slancio straordinario – ancora in atto – per preparare gli atleti cinesi del nuoto per vetrine internazionali come le Olimpiadi e i campionati mondiali. In tutto, Mao si tuffò nello Yangzi e nuotò a favore di macchine da presa e telecamere per altre 41 volte, di cui 17 a Wuhan. La più nota di queste nuotate fu quella del 16 luglio 1966, sempre a Wuhan; il Grande Timoniere aveva, allora, settantatré anni, e con lui scesero in acqua cinquemila studenti d’ogni ordine e grado (anche bambini delle elementari), e centinaia di membri e dirigenti del Partito; seguito anche da una flottiglia di imbarcazioni pavesate a festa con palloncini colorati, il Presidente nuotatore attraversò il fiume vincendo le forze della natura e le preoccupazioni di chi temeva per la sua salute, dimostrando così, ancora una volta, il vigore della sua autorità e stimolando il consenso delle masse in un momento in cui stava per lanciare una delle più importanti campagne politiche che la Cina contemporanea abbia vissuto: la Rivoluzione Culturale.
Ritornando alla creazione di Wuhan, se un secolo fa, in Cina, inventare nuove città accorpando aree metropolitane sembrava un sistema vantaggioso per meglio governare e controllare – oggi diremmo ottimizzare – risorse, abitanti, burocrazia e dinamiche sociali, dagli anni ’80 in poi la tendenza è andata nel senso opposto. Il motivo è semplice: l’aumento vertiginoso della popolazione. La Wuhan di oggi, che con i suoi circa 12 milioni di abitanti è la seconda per estensione urbana della Cina interna (la prima è Chongqing 重庆, 34 milioni di abitanti), è un polo industriale nevralgico per l’economia cinese, e necessita di una riorganizzazione. Come è stato fatto per Shanghai, anche per questa città si sta studiando un piano di decentralizzazione gerarchizzata, per spezzettare la mega-città monocefala e sovrappopolata, in una rete di centri urbani indipendenti e polifunzionali. Non sappiamo se si ritornerà alla suddivisione nelle tre città originarie che la formarono.
Intanto, in quella che era la vecchia Hankou, i palazzetti delle concessioni coloniali europee e americana, risparmiati dai bombardamenti americani del 1944, fungono da scenografia rétro alla Wuhan di notte. È questo il centro della movida al centro della Cina. Qui, prima dell’epidemia di coronavirus, si poteva vagabondare tra un bar alla moda – per esempio nella sede che ospitava la Banca di Indocina – e l’altro – come la chiesa sconsacrata della ex concessione francese. Nelle vie si susseguono locali in cui era possibile ascoltare rock, jazz, musica latino-americana, disco, o fare karaoke, bere tutto il bevibile, ballare tutto il ballabile, spendere tutto lo spendibile. Ce n’era per tutti i desideri. Si poteva anche assistere a spettacoli altamente originali, come quelli en travesti del “Bar della notte insonne” – Bumian ye jiuba 不眠夜酒吧 – il locale gay messo su in una officina dismessa, che fino a poco tempo fa era pubblicizzato con un audace manifesto in cui un microfono si ergeva fra le gambe di un uomo nudo. Per i più tradizionalisti, forse era più ecologica una passeggiata sul lungofiume di quella che era Wuchang, un lungo e suggestivo nastro pedonale cui gli autoctoni affibbiano un senso di inferiorità rispetto al più noto bund di Shanghai. E all’alba, quando non si avevano più le energie né per la movida né per le deambulazioni illuminate dai riflessi del fiume, si poteva andare a nanna in un grande albergo di Hanyang, dove le sedi universitarie corroborano l’idea che qui tutto è più calmo.
Certo, in questo periodo clou dell’epidemia di coronavirus, la movida e le passeggiate sono un ricordo per Wuhan. Chiediamoci: c’è in giro qualcuno che non auguri alla città di ritornare presto ai suoi ritmi vertiginosi, movida e passeggiate comprese? Di sicuro no, perché se la vita ricomincia a pulsare alla confluenza tra lo Han e lo Yangzi, lo farà ovunque lo spettro del virus ha soffocato attività e spento energie.
E, a proposito di lingua cinese e di invenzione di nomi, la movida, in mandarino si traduce come gandong 感动, e Nutella – quella che abbonda sulla bocca twittata dei ministri della paura – in cinese l’hanno chiamata Nengduoyi 能多益 (come dire: “più energia è vantaggiosa”). Sono d’accordo, è proprio una iniezione di energia e, aggiungo, di ottimismo, che ci vuole per affrontare le crisi, a Wuhan come dappertutto. E al diavolo i ministri della paura!
Di Isaia Iannaccone*
**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)