Il 12 giugno alle 13.41, al secondo piano del lussuoso Capella Hotel di Singapore, Donald Trump e Kim Jong-un suggellavano lo storico meeting con la firma di un comunicato congiunto dai toni nebulosi. Alcune ore prima che la Casa Bianca pubblicasse una copia dell’accordo su Twitter, una traduzione in lingua cinese ne aveva anticipato fedelmente i contenuti. Ogni dettaglio ha la sua rilevanza nella ricostruzione di quel frenetico lasso di tempo in cui l’attenzione mediatica si è spostata rapidamente a Pechino. Lì, riaffermando in conferenza stampa il sostegno al processo di pace, il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang salutava il vertice ancora in corso come una vittoria dell’iniziativa “suspension for suspension”, la ricetta sponsorizzata nell’ultimo anno dal governo cinese — e in passato rifiutata categoricamente dall’amministrazione americana — che prevede il congelamento del programma nucleare e missilistico nordcoreano in cambio dell’interruzione delle esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul.
Letteralmente: “i fatti hanno dimostrato che l’iniziativa della doppia sospensione proposta dalla Cina si è materializzata e ora la situazione sta procedendo anche nella direzione di un approccio “dual-track”. Per “fatti” s’intende la decisione inattesa con cui Trump ha proclamato l’interruzione delle operazioni militari con Seul, spiazzando tanto la Casa Blu quanto il Pentagono. Ma parlare di “materializzazione” è improprio considerando che l’annuncio sarebbe stato fatto soltanto circa un’ora più tardi in un incontro con i media, quando ormai Kim era già in fase di rimpatrio.
Considerata la cronologia degli eventi, le doti profetiche di Pechino sembrerebbero rivelare una conoscenza particolarmente approfondita di quanto negoziato a porte chiuse dai vertici americani e nordcoreani negli scorsi mesi, spiegabile solo alla luce di una comunicazione costante con l’establishment di Pyongyang. In cerca di una sponda amica nelle trattative con Trump, da marzo a oggi, l’ultimo discendente della dinastia Kim ha deliziato la leadership cinese con tre visite (“informali”) oltre la Muraglia in soli 100 giorni, un primato senza precedenti tra la diplomazia mondiale.
Pochi giorni fa, accogliendo il giovane leader, il presidente Xi Jinping ha lodato l’esito “positivo” del summit di Singapore in riferimento all’impegno comune nel processo di pace e denuclearizzazione della penisola. “A prescindere dai cambiamenti nella situazione internazionale e regionale, la posizione risoluta del partito e del governo cinese riguardo alla necessità di consolidare e sviluppare le relazioni sino-nordcoreane non cambierà mai” ha sottolineato Xi, dando la propria disponibilità a collaborare con la Corea del Nord nel perseguimento di “un futuro più bello per i progetti socialisti dei due paesi”. Chiaro riferimento alla creazione di possibili sinergie in ambito economico attraverso l’introduzione di riforme di denghiana memoria. Non a caso a stretto giro dal vertice il ministero degli Esteri cinese ha ricordato come le risoluzioni Onu prevedano “la pausa e la rimozione delle sanzioni” nel caso in cui Pyongyang rispetti gli impegni presi. A seguire, un riferimento puntuale e perentorio sull’imprescindibilità di un coinvolgimento cinese nella riscrittura degli equilibri regionali una volta firmato un trattato di pace necessario a mettere fine “de jure” alla guerra nella penisola (“nessuno può dubitare del ruolo estremamente unico e importante della Cina. E questo ruolo continuerà”).
La riaffermazione della fratellanza tra i due vecchi alleati comunisti arriva dopo anni di tensioni, aggravate dall’esecuzione per “alto tradimento” dello zio filocinese di Kim, Jang Song Thaek, che stando agli analisti ha coinciso con il congelamento di una serie di progetti economici sino-coreani e il conseguente allontanamento dalle riforme. Le passate ostilità e i timori di una possibile emarginazione di Pechino dai negoziati sono tutt’ora riscontrabili nella cauta copertura riservata dai media statali all’indomani del summit.
Le prime pagine dell’agenzia Xinhua e del quotidiano ufficiale People’s Daily sono state monopolizzate dall’ultima edizione della Shanghai Cooperation Organization, celebrata a mezzo stampa come contraltare a un G7 agonizzante. Più audace il Global Times che, alla prospettiva di una Corea del Nord aperta ai capitali esteri, da mesi invita gli investitori cinesi alla prudenza, ricordano le molte insidie del fare affari a Nord del 38esimo parallelo, arrivando persino a titolare “I benefici dell’unificazione coreana saranno verosimilmente interni.” Messaggio dissoltosi nell’etere a giudicare dall’entusiasmo con cui il Dongbei (il Nordest della Cina) ha già parzialmente ripristinato le attività lungo il confine scommettendo sulla rimozione delle sanzioni.
Al quotidiano della politica estera cinese va anche la paternità di un’analisi particolarmente disillusa sulle ripercussioni del summit nell’Asia Orientale: “una volta che la penisola coreana si sarà stabilizza, il Mar Cinese Meridionale e Taiwan diventeranno le due principali aree di crisi […] In breve, anche in caso di una sospensione delle esercitazioni militari congiunte Usa-Corea del Sud, la riduzione delle forze statunitensi o il loro ritiro totale dalla regione rimane un’ipotesi piuttosto irrealistica.”
La riservatezza degli organi ufficiali scolora davanti alla loquacità della pancia del paese. Come spesso accade in Cina, è in rete che si misurano veramente gli umori del popolo. Nonostante le maglie strettissime della censura, su Weibo l’hashtag “North Korea-US Summit” (#朝美首脑会) ha ricevuto oltre 30 milioni di visualizzazioni. I commenti spaziano dalle ironiche allusioni alle pettinature e alla stazza di Kim e Trump fino alle osservazioni titubanti sull’esito evanescente del meeting. “Non sarà troppo presto per definire il vertice un successo?” si chiede un utente ricordando come in fin dei conti “si tratta di due persone che hanno quasi scatenato la Terza Guerra Mondiale”.
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.