A pochi giorni dalle presidenziali, a Taiwan la questione identitaria è più urgente che mai. Tra leggi anticinesi, incidenti aerei misteriosi e un delicato triangolo tra Cina e Stati Uniti, la campagna elettorale degli ultimi mesi è tra le più controverse della storia dell’isola, con l’aria burrascosa di Hong Kong che soffia anche su Taipei.
Dallo scorso giugno ad oggi, i disordini di Hong Kong si sono imposti sul sentire politico dei taiwanesi: in cima all’agenda non c’è più l’economia, ma la sovranità nazionale. “Oggi Hong Kong, domani Taiwan” volantinano gli universitari: ed è proprio questo che teme la società civile, dal momento che “un paese, due sistemi” – il modello adottato nell’ex-colonia britannica – è la regola d’oro con cui Pechino immagina di governare anche Taiwan.
Tutto ciò riverbera negli slogan elettorali dei candidati alla presidenza. I movimenti di Hong Kong riflettono l’indirizzo politico di Tsai Ing-wen, presidentessa uscente e leader del DPP, partito progressista da sempre meno incline al dialogo con Pechino. Tsai ne ha approfittato per un’aggressiva campagna anti-cinese. Il suo messaggio di fine anno alla nazione riafferma con convinzione i “quattro doveri” della Repubblica Popolare nei confronti di Taiwan e le “quattro intese” del popolo di Taiwan. Gli otto punti non sono altro che diverse articolazioni di uno stesso concetto: la Cina è nemica, e privilegiare i vantaggi economici degli scambi con il continente a scapito delle libertà democratiche significa abdicare alla propria identità e alla sovranità dei taiwanesi sull’isola. Non solo: la leader progressista è riuscita, a meno di due settimane dal voto, a far passare un Anti-infiltration Act con l’obiettivo di limitare le interferenze cinesi negli affari di politica interna. E, secondo gli ultimi sondaggi, è favorita sul rivale, il nazionalista Han Kuo-yu: impensabile soltanto fino a sei mesi fa, quando i conservatori del Kuomintang – il cui programma è meno inviso a Pechino – sembravano in netto vantaggio. Nel novembre precedente, lo stesso Han era addirittura riuscito a espugnare Kaohsiung, uno dei principali centri economici del paese e roccaforte del DPP.
L’inversione di marcia arriva proprio insieme all’inizio delle proteste, che hanno distratto i taiwanesi da una situazione economica non proprio florida e da un sistema di welfare ancora da potenziare. Tsai è tornata nelle grazie dei suoi concittadini per l’ideologia anti-cinese del suo programma politico, e la prontezza nello schierarsi dalla parte degli hongkongesi fin dai primi giorni. Anche Han si è visto costretto a censurare le proprie posizioni filo-Cina e a esprimere la propria solidarietà all’ex-colonia, ma ha accusato la presidente di strumentalizzare le lotte altrui per scopi elettorali. Lo sfidante ha continuato a battere sull’economia stagnante dell’isola, promettendo ai taiwanesi migliori performance economiche e di “non dimenticarsi mai di chi è in difficoltà”. Ma i dati dell’Asian Development Bank raccontano un’altra storia: Taiwan sarebbe il primo paese a beneficiare delle conseguenze della guerra commerciale tra gli USA e la Cina, con una crescita in termini di PIL del 2.91% – superiore alle aspettative per il 2019.
A complicare ulteriormente il quadro è arrivato l’incidente aereo del 2 gennaio, costato la vita al generale Shen Yi-ming e ad altri sette militari e le cui cause non sono ancora state chiarite. Mentre lo spettro di Pechino aleggia sull’accaduto, rafforzando l’“effetto Hong Kong” e i sentimenti anticinesi, l’opposizione addita come responsabile la stessa Tsai Ing-wen che, in quanto Presidente, ricopre anche la carica di comandante in capo dell’Esercito.
Una campagna elettorale conflittuale e confusionaria, in cui si intrecciano le rivendicazioni identitarie di tutte quelle Cine “altre” che sembrano destinate a diventare la nuova trincea del conflitto tra democrazia e autoritarismo in Asia orientale.
Di Silvia Frosina*
**Silvia Frosina, nata a Genova nel 1996. Già laureata in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione all’Università di Torino, sta completando un Master in China Studies tra la SOAS di Londra e la Zhejiang University. Ha collaborato con Il Manifesto e con il capitolo londinese di NüVoices, un collettivo editoriale che investiga questioni relative a identità e parità di genere in Cina e Asia.
[Pubblicato su il manifesto]