Quando Xi Jinping 习近平 è salito al potere, alla fine del 2012, ha voluto dare inizio a un nuovo corso della storia nazionale. Così, al fine di imprimere un rinnovato slancio patriottico, ha coniato lo slogan del “sogno cinese” (Zhongguo meng 中国梦): ovvero il sogno della “grande rinascita della nazione cinese”, teso a far diventare lo “stato ricco e potente, la nazione vigorosa, e il popolo felice”, che sarebbe secondo lui l’aspirazione perseguita da ogni “figlio della Cina” fin dalle origini dell’epoca moderna. Poi, siccome uno slogan può poco o nulla, se non è in grado di creare immagini e stimolare desideri, la propaganda si è messa in moto per disseminare la “visione” del nuovo segretario.
Il Ministero dell’Educazione ha lanciato allora prontamente una campagna, battezzata “il mio sogno cinese”, finalizzata a incentivare gli studenti “di ogni scuola di ogni livello della Cina” a raccontare, scrivendo una composizione, la propria visione del sogno “nazionale”: sì da “esprimere, attraverso i propri saggi, il loro cuore patriottico, il desiderio di rafforzare la nazione, e la volontà di proteggerla”. C’era, nel paniere dei sogni “immaginabili”, anche quello sul futuro della Cina. Gli studenti potevano, cioè, descrivere come sarebbe stata secondo loro la Cina del 2049, l’anno del centenario della fondazione della Repubblica Popolare. Xi Jinping aveva infatti indicato che la strada per realizzare il grande sogno era composta di due traguardi: il primo, intermedio, sarebbe stato raggiunto nel 2021, l’anno del centenario della fondazione del Partito Comunista, in cui la Cina sarebbe diventata una società del “piccolo benessere” (xiaokang 小康); il secondo, quello finale, sarebbe stato raggiunto invece 2049, quando la Cina sarebbe diventata un “paese socialista modernizzato, ricco e potente, democratico, civile, e armonioso”. Erano, tali traguardi – i traguardi dei cosiddetti “due centenari” (liang ge er bai 两个二百) –, gli “obiettivi di lotta” (fendou mubiao 奋斗目标) della Cina nella sua marcia verso la Rinascita (fuxing 复兴), destinati a essere inevitabilmente raggiunti a patto che tutti, giovani in testa, lottassero appunto per la loro realizzazione.
Così il web cinese ha cominciato ad affollarsi di pagine dedicate al “mio sogno cinese”, nelle quali hanno trovato spazio decine e decine di composizioni modello destinate a esser prese come esempio – o forse solo scopiazzate – dai tanti studenti che non fervono particolarmente per immaginazione patriottica. Fra queste, quelle che parlano del futuro sembrano più che altro degli esercizi un po’ pedanti in cui gli autori si sforzano di rendere in immagini – in verità nemmeno troppo immaginifiche – quegli attributi che, secondo il Partito, la Cina dovrebbe acquisire entro il 2049. Insomma, propaganda. O forse sarebbe più corretto parlare di catechismo, il solito catechismo di stato con cui il Partito Comunista educa da sempre i cinesi alla propria “buona novella”, mentre i cinesi, da parte loro, un po’ ci credono davvero, un po’ fanno finta di crederci, e per il resto girano al largo dalla dottrina. Un catechismo che, in ogni caso, non va assolutamente sottovaluto, data la pervasività con cui esso impronta la vita sociale e in buona parte la indirizza. Anzi: è proprio osservando con attenzione i discorsi e le operazioni della propaganda cinese che possiamo distinguere non solo le particolari visioni sociali delineate dal Partito Comunista, ma anche la natura peculiare dello stato cinese e delle funzioni che questo si attribuisce. Qui, ad ogni buon conto, mi voglio limitare a osservare come il Partito Comunista costruisce la sua visione del futuro, e usa quest’ultima per strutturare la società nel presente.
Se in molti hanno notato come la “costruzione del passato”, con le sue annesse “invenzioni” della tradizione e “mitologizzazioni” della storia, ha avuto, ed ha tuttora, un ruolo importante nella formazione delle identità collettive dei moderni stati nazionali, in Cina la “costruzione del futuro” ha avuto e continua ad avere in questo senso una funzione ancor più fondamentale. È stato manipolando le aspirazioni del futuro, fissandone gli obiettivi, disegnandone gli scenari, orchestrandone l’allestimento, che il Partito Comunista è sempre partito per mobilitare la popolazione, al fine di unirla, educarla e darle un senso di missione; ed è stato partendo dalla propria visione del futuro che il Partito ha ricostruito, di volta in volta, il passato nazionale. Nato con la missione di erigere la “nuova” Cina, il Partito Comunista dal futuro è sempre stato ossessionato, proprio perché è sempre stato dalla sua capacità – o meno – di tradurre in realtà le proprie grandiose immagini della Cina futura che è sempre dipesa la legittimazione della sua leadership e quindi la sua sopravvivenza. Ma tale ossessione non è un semplice retaggio comunista, un’eredità per così dire dell’utopismo marxista-leninista. Ci sono degli schemi ricorrenti, nel modo in cui il Partito immagina il futuro, i quali a loro volta hanno una storia che precede l’esistenza del Partito stesso. Tracciando una genealogia di questi schemi, non sarà difficile scoprire che essi trovano origine nella stessa origine della modernità cinese. Tracciare questi schemi, perciò, è anche un modo per capire meglio certe caratteristiche peculiari della modernità cinese, che ci possono aiutare a capire meglio, a loro volta, certe dinamiche specifiche della Cina di oggi.
Genealogie del futuro
Io spero che, nel centenario della fondazione, Taiwan sarà già tornata nel grembo della madrepatria. Spero che nel mondo ci sarà più pace e meno guerra, che si coabiterà in amicizia, e che la Cina avrà uno status potentissimo, un esercito e una tecnologia eccelsa, che la sede dell’ONU e dell’OMC si saranno trasferiti in Cina e che la Cina avrà un potere decisivo in tutte le questioni mondiali grandi e piccole. Nel 2049 la società cinese sarà di certo modernizzata, in gran misura autonoma e armoniosa; tutele, welfare e servizi sociali saranno interamente di stampo comunista. Detto semplicemente, per andare dal medico, frequentare la scuola e mantenere i vecchi non bisognerà pagare, e la cultura, l’istruzione, i divertimenti saranno tutti aperti gratuitamente per le masse. Per comprare le cose non serviranno i soldi, e anche chi non lavora riceverà il necessario per vivere.
Anche se è Xi Jinping, ufficialmente, che viene considerato il padre dello slogan dei “due centenari”, è stato in realtà il suo predecessore, Hu Jintao 胡锦涛, a enunciare per la prima volta i due obiettivi. Ma nemmeno Hu Jintao si può considerare veramente il padre dello slogan, dal momento che il suo progenitore autentico, se vogliamo davvero risalire alla fonte originaria, dovrebbe essere piuttosto considerato Deng Xiaoping 邓小平, il quale, già alla metà degli anni Ottanta, aveva cominciato a parlare del “cammino dei tre passi” (san bu zou 三步走): la Cina avrebbe dovuto raddoppiare il PIL entro il 1990, quadruplicarlo entro il 2000, e avrebbe dovuto, entro la metà del Ventunesimo secolo, diventare un paese mediamente sviluppato, se non alla pari, comunque non troppo inferiore alle potenze più avanzate. Deng Xiaoping, demiurgo dell’era riformista, aveva inteso il futuro soprattutto in termini di prosperità economica, che andava acquisita in primis grazie all’apertura al mondo capitalista e alla modernizzazione tecnologica; per questo aveva anche precisato, nel 1983, che l’educazione cinese doveva “guardare alla modernizzazione, guardare al mondo, e guardare al futuro”: da cui sarebbe stato ricavato, in seguito, un altro fortunato slogan, quello dei “tre orientamenti” (san ge mianxiang 三个面向).
Deng Xiaoping era stato anche il primo a parlare di xiaokang, già nel 1979, quando in un incontro con il Primo Ministro giapponese aveva spiegato che la sua sarebbe stata una modernizzazione “alla cinese”, finalizzata a portare alle “famiglie” il “piccolo benessere” entro la fine del millennio. Nel 1982 il Congresso del Partito aveva ufficializzato quest’obiettivo facendolo coincidere con quello di quadruplicare il PIL, poi, siccome il miracolo della quadruplicazione era stato dichiarato già avvenuto nel 1999, Jiang Zemin 江泽民 aveva prefigurato nel 2002 una nuova quadruplicazione entro i primi vent’anni del nuovo secolo, promettendo questa volta che la Cina sarebbe divenuta una società xiaokang “completa”, ovvero che la soglia del “piccolo benessere” sarebbe stata raggiunta non solo come media nazionale, ma da ogni singolo cinese.
Ma xiaokang non era solo una parola tecnica che serviva a indicare, limitandosi a quantificarla, la misura della ricchezza da raggiungere a livello nazionale e personale. Xiaokang è un concetto delineato nel Liji 礼记 (Memorie sui Riti), antico classico confuciano redatto nel primo periodo Han (206 a.C. – 9 d.C.), nel quale designa un tipo di società in cui la ricchezza è posseduta dalle singole famiglie, che pensano solo al proprio bene amando solo i propri membri. Una società egoista, dunque, e dunque lungi dall’essere perfetta, in cui tuttavia, grazie alla pratica dei riti, viene comunque mantenuto l’ordine sociale, i rapporti interpersonali sono armonizzati, e l’individuo può far valere i propri meriti. Xiaokang perciò si riferiva, sebbene in modo non del tutto trasparente, non solo a un progetto economico, ma anche a un corrispondente ordine ideologico-morale, che si sarebbe dovuto erigere, come una marxiana sovrastruttura, sulla base del nuovo modello produttivo. Xiaokang, in altre parole, serviva a validare tanto l’individualismo economico necessario alla costruzione del mercato, quanto l’aspirazione del governo a promuovere l’ordine morale della società. Era d’altra parte un’idea confuciana, più che marxista, quella per cui il sovrano, se vuole che la società sia pacifica e i sudditi virtuosi, deve prima di tutto garantire a questi una sussistenza dignitosa: e difatti tutti i leader comunisti, da Deng Xiaoping in poi, hanno considerato l’arricchimento della Cina e dei cinesi non solo un fine in sé, ma la precondizione necessaria per garantire l’armonia sociale, la crescita spirituale della popolazione, e la fioritura delle arti e delle scienze.
Deng Xiaoping non attingeva l’idea del xiaokang direttamente dai classici, però. Sarebbe un errore pensare che, quando i comunisti cinesi si rifanno ai concetti della tradizione confuciana, ciò che hanno in mente siano davvero quei concetti. Deng Xiaoping aveva rispolverato il concetto di xiaokang perché quest’ultimo, nel passaggio del Liji in cui era stato articolato, si contrapponeva al concetto di datong 大同, ossia la “grande unità”, o “grande concordia”, che caratterizzava una società in cui il “mondo era di tutti” (tianxia wei gong 天下为公), tutti si prendevano cura di tutti come se fossero loro parenti, ognuno trovava la sua giusta occupazione, e in cui di conseguenza nessuno rubava o si accaparrava beni, sicché non occorreva chiudere a chiave la porta di casa. Era il datong l’ideale utopico degli antichi, l’“età dell’oro” situata nel passato di cui il xiaokang non era nient’altro che un’ombra, un surrogato approssimativo con il quale accontentarsi in un’epoca in cui, come diceva il classico attribuendo le parole a Confucio stesso, la “via del cielo si era oscurata”. Ma datong era piuttosto diventato, con il passaggio all’epoca moderna, il significante che evocava la società ideale del futuro, una società fatta per l’uomo in cui non c’erano divisioni sociali e tutti avevano uguale accesso al bene pubblico. Una società, cioè, di matrice socialista, se è vero, come è vero, che era stato Sun Yat-sen 孙中山 a indicare nella realizzazione del datong il fine ultimo dei suoi Tre Principi del Popolo, e lo stesso Mao Zedong 毛泽东, in un discorso scritto solo tre mesi prima della fondazione della Repubblica Popolare, aveva detto a chiare lettere che lo scopo del Partito, nel dar vita a uno stato proletario, sarebbe stato quello di realizzare il socialismo e il comunismo per abolire le classi sociali, e far così entrare l’umanità nel regno della Grande Concordia.
Mao, “cosmocrate” della rivoluzione, profeta visionario del futuro quanto spregiudicato esegeta del passato, aveva riscritto la storia della Cina moderna come un mito millenarista di caduta e redenzione: era stato lui a cristallizzare i cent’anni seguiti alla Prima Guerra dell’Oppio (1839-1842) come il secolo delle umiliazioni imperialiste che avevano costretto i cinesi a risvegliarsi, rialzarsi, e a riscattarsi nella lotta; e sarebbe stato lui a indicare, nella “liberazione” finalmente compiutasi nell’“anno zero” del ’49, l’avvento messianico di un nuovo secolo tutto proteso verso la rinascita e il rinvigorimento nazionale. La storia da quel momento sarebbe diventata pianificazione e sogno utopico, prognosi tecnica e vaticinio oracolare; e infatti, già nel 1956, Mao aveva cominciato a prevedere, con molta confidenza, che la Cina sarebbe diventata entro il 2001 un “potente paese industriale socialista”, e nemmeno due anni dopo, mentre lanciava il secondo piano quinquennale, altresì noto come Grande Balzo in Avanti, azzardava con altrettanta convinzione che la Cina in quindici anni avrebbe raggiunto e sorpassato sul piano della produzione industriale la Gran Bretagna. Oggi, quando si pensa al movimento del Grande Balzo in Avanti, vengono in mente più che altro i sacrifici immani brutalmente imposti ai contadini dall’ideologia totalitaria del Comunismo; meno frequentemente si tiene conto che il Partito, viceversa, era riuscito a mobilitare i contadini anche grazie alle promesse che i loro sforzi sarebbero stati ricompensati, in un futuro molto prossimo, con la realizzazione di una “cuccagna” comunista della quale tutti quanti avrebbero goduto. “Il comunismo è il paradiso, le comuni popolari ne costituiscono il ponte”, prometteva uno degli slogan più eloquenti dell’epoca; ed erano state le fantasmagoriche immagini di abbondanza, benessere e felicità che dovevano concretizzarsi con l’impresa della collettivizzazione – maiali grandi come elefanti, pannocchie grandi come razzi, arachidi grandi come barche, e, di conseguenza, famiglie esultanti e villaggi uniti nella pace e nell’armonia – che avevano sedotto i contadini spingendoli inizialmente ad accettare i sacrifici richiesti. Purtroppo, al posto dell’agognata prosperità sarebbe ben presto arrivata la catastrofe.
Così, il ripiegamento sul target più modesto del xiaokang significava soprattutto, per Deng Xiaoping, la sospensione sine die dell’utopia comunista, una volta che questa si era trasformata, da sogno avvenirista di Grande Concordia, nell’incubo quotidiano della corvée collettivista e del terrore giacobino, esploso il primo con il Grande Balzo e il secondo con la Rivoluzione Culturale. E significava, per contro, la rilegittimazione pratica dell’interesse personale, soppresso dalla dittatura del proletariato, che ricominciava a essere tutelato, e anzi incoraggiato, nella misura in cui poteva beneficiare, assieme all’individuo, anche la nazione. Della precedente età maoista, a ogni buon conto, la nuova fase riformista aveva ereditato la tendenza a pianificare e a quantificare il tempo, a considerare la storia come una marcia a tappe forzate verso un traguardo ineludibile, il progresso come una lotta darwiniana per “acchiappare” l’Occidente, il futuro come l’appuntamento della nazione con il proprio destino di rinascita.
Nemmeno Mao, comunque, aveva invocato la sua visione del datong pensando direttamente ai classici. La sua fonte di suggestione principale, piuttosto, era stata originariamente Kang Youwei 康有为. Era stato quest’ultimo, infatti, il primo che aveva proiettato, già sul finire dell’Ottocento, l’ideale del datong nel futuro anziché nel passato, ed era stato quest’ultimo, perciò, il primo vero pensatore utopico della modernità cinese. Questi, rileggendo i classici confuciani alla luce del moderno evoluzionismo occidentale, aveva interpretato la storia come un moto progressivo di perfezionamento sociale e morale destinato a condurre l’umanità, attraverso varie fasi, dall’epoca del Caos a quella della Grande Pace, realizzando prima l’ideale del Piccolo Benessere e in ultimo quello della Grande Concordia. Quindi aveva illustrato la sua visione utopica in un libro intitolato appunto La grande concordia (Datongshu 大同书) – portato a termine nel 1902 – nel quale delineava i tratti di una nuova società in cui sarebbero state abolite, fra le varie cose, le classi sociali, le distinzioni fra i sessi, e finanche gli stati, con il risultato che la benevolenza avrebbe finalmente trionfato in un mondo finalmente unificato. A Kang Youwei aveva fatto eco il suo ex discepolo Liang Qichao 梁启超, il quale aveva iniziato a stendere, sempre nel 1902, un romanzo utopico, Cronache sul futuro della nuova Cina (Xin Zhongguo weilai ji 新中国未来记), per illustrare come si sarebbe trasformata la Cina nel 1962 e, soprattutto, per spiegare quale strada avrebbe percorso per trasformarsi. Nel romanzo, peraltro completato solo in parte, Liang Qichao dipinge così una Cina che, grazie all’istituzione di un sistema costituzionale e a una robusta partecipazione democratica, è diventata nel tempo un paese prospero, rispettato e soprattutto egemone, capace di influenzare positivamente la politica mondiale (la Cina all’epoca di cui si narra è appena diventata sede del Congresso Internazionale per la Pace) armonizzando i rapporti fra stati grazie all’esercizio di un governo illuminato, ispirato tanto dai valori liberali occidentali quanto dalla tradizionale virtù confuciana.
Liang Qichao però non è passato alla storia per l’esuberanza della sua immaginazione futuristica, quanto semmai per le ricette che ha prescritto per costruire l’avvenire nazionale. Come la maggior parte degli intellettuali del suo tempo, infatti, Liang Qichao sosteneva che la Cina, per non soccombere in un mondo che si riteneva dominato dalla lotta per la sopravvivenza, doveva pensare prima di tutto a diventare “ricca e potente” (fuqiang 富强); inoltre, poiché riteneva che la forza di una nazione dipendesse fondamentalmente dalla forza complessiva dei suoi membri, sosteneva che la Cina doveva innanzitutto istituire un regime democratico per “liberare” i cinesi dai vincoli tradizionali che li soggiogavano e consentirgli di sviluppare al massimo tutte le loro potenzialità fisiche, intellettuali e morali, così da mettere queste ultime al servizio della costruzione dello stato nazionale. A questo fine, però, era necessario rimodellare radicalmente la psiche e la morale dei cinesi trasformandoli nei moderni cittadini di uno stato-nazione, una missione a cui Liang Qichao si era dedicato anima e corpo descrivendo instancabilmente e puntigliosamente, in numerosissimi saggi scritti nei primissimi anni del Novecento, i valori, le doti e le virtù che il “nuovo popolo” (xin min 新民), ovvero i cinesi del futuro, erano chiamati ad acquisire: essi avrebbero dovuto, fra le varie cose, imparare a coltivare la propria libertà e nello stesso tempo lo spirito di gruppo, diventare capaci di autodeterminarsi ed esercitare nel contempo una ferrea autodisciplina, apprendere il senso della virtù privata così come della virtù pubblica, quello dell’amor proprio come lo spirito di sacrificio, acquisendo la consapevolezza dei propri diritti personali insieme alla contezza dei propri doveri patriottici. Sembrano attributi in conflitto fra loro, ma per Liang Qichao non lo erano affatto: solo la responsabilità cosciente verso di sé porta l’individuo a essere coscientemente responsabile della comunità nazionale di cui costituisce parte organica; questo il ragionamento. Un ragionamento che avrebbe successivamente goduto di una fortuna costante in tutto il corso della storia cinese moderna.
In seguito, l’idea che per edificare il futuro della Cina occorreva prima di tutto rimodellare la coscienza dei cinesi – per potervi cesellare, nello spirito, una gamma sfaccettata di attributi positivi – sarebbe stata l’asse portante tanto del pensiero illuminista del Quattro Maggio quanto di quello del nuovo stato Comunista. Certo i fini educativi, i metodi, e soprattutto gli attributi da interiorizzare erano destinati a cambiare a seconda delle diverse fasi storiche. Sappiamo per esempio che l’“uomo nuovo” comunista, per Mao Zedong, doveva imparare a personificare l’altruismo, la tenacia e il fervore rivoluzionario dei modelli proletari: come Norman Bethune, avrebbe dovuto dedicarsi agli altri senza pensare a se stesso; come Zhang Side, avrebbe dovuto essere pronto a morire per servire il popolo; come “il vecchio sciocco che sposta le montagne”, avrebbe dovuto lottare con titanica abnegazione per l’avvenire delle generazioni successive. Durante l’era riformista, per contro, il Partito si era impegnato a convertire i cinesi allo “spirito del capitalismo”, cercando di trasformarli da “animali politici” in homini oeconomici in grado di perseguire razionalmente il proprio interesse personale. Secondo le direttive del Ministero dell’Educazione pubblicate negli anni Novanta, perciò, gli “uomini nuovi del Ventunesimo Secolo”, dovevano sviluppare tutto il loro “talento” per diventare “forze produttive” “altamente qualificate” in grado di rendere la Cina competitiva nel contesto dell’economia globale, dotandosi di un corredo di “qualità” utili allo sviluppo del capitalismo, come quelle di “creatività”, “innovatività”, “imprenditorialità” e “competitività”.
Tuttavia, siccome l’esplosione del mercato aveva finito per far dilagare ovunque l’egoismo, la corruzione e la prepotenza, generando secondo il Partito una pericolosa “crisi morale” che rischiava di distruggere irrimediabilmente la pace sociale (e con questa l’autorità dello stato socialista), Xi Jinping era intervenuto energicamente incaricandosi di ripristinare la moralità; e aveva dunque lanciato la narrazione del “sogno cinese” soprattutto per ricordare ai cinesi il dovere imperativo di sentirsi tutti parte di un “destino comune” (gongtong mingyun 共同命运), in base alla logica che, solo se si rimane tutti uniti, il futuro sarà roseo per tutti. “Solo se lo stato e la nazione stanno bene, stanno bene tutti quanti”, aveva sottolineato il segretario del Partito nel suo primo discorso ufficiale, al quale aveva fatto eco, pochissimi mesi dopo, il segretario della Lega della Gioventù Comunista Qin Yizhi, il quale, nel presentare l’iniziativa “il mio sogno cinese” , aveva ricordato ai giovani che la precondizione indispensabile per realizzare i loro sogni personali era che questi si “fondessero con il sogno cinese”. “I sogni”, aveva puntualizzato, “si possono realizzare solo se si conformano alle tendenze di sviluppo di un’epoca, solo se si unisce il proprio avvenire con il destino dello stato e della nazione”. E dunque, dimostrando di avere capito la lezione, molti dei giovani autori delle composizioni sul “mio sogno cinese” avevano espresso il loro voto di sognare assieme alla patria chiudendo i loro scritti con un passo de La giovane Cina di Liang Qichao: “La responsabilità oggi ricade per intero sulla gioventù. La Cina sarà saggia se saranno saggi i giovani, sarà ricca se saranno ricchi i giovani, sarà forte se saranno forti i giovani, sarà indipendente, libera e progredita se saranno indipendenti, liberi e progrediti i giovani. La Cina supererà l’Europa se i giovani supereranno l’Europa, sarà egemone nel mondo se i suoi giovani saranno egemoni nel mondo”.
Guardare al futuro, usando il passato come specchio
L’uomo vive sempre in due mondi: sul piano spaziale, trattasi del mondo reale e del mondo ideale; sul piano temporale, trattasi del presente e del futuro. La realtà e il presente sono l’ambito dell’azione; l’ideale e il futuro sono l’ambito della speranza. Però, come la realtà del presente è la manifestazione dell’ideale serbato in precedenza, così l’ideale serbato nel presente è la cambiale per realizzare la realtà del futuro.
Il precedente excursus ci ha permesso di intuire come la storia della Cina moderna sia attraversata da un certo modo peculiare di vedere il futuro, un modo che, pur nella diversità degli specifici periodi storici, è caratterizzato da una continuità di fondo, al punto da apparire quasi consustanziale alla stessa “modernità” cinese. Continuità: che non vuol dire un’indistinta quanto imperscrutabile perpetuazione collettiva di determinate idee e tendenze, quanto una consapevole riproduzione da parte di alcuni attori sociali – in questo caso specifico i leader comunisti – di alcuni schemi elaborati da altri attori nel passato; schemi che, costantemente reinterpretati e rielaborati nel presente, finiscono per essere rigenerati e risignificati in modo uguale e diverso a ogni nuovo passaggio della catena storica. La “genealogia del futuro” appena tratteggiata, per ovvie ragioni di spazio, è stata inevitabilmente sommaria e selettiva, ma forse sufficiente a mettere in luce alcuni elementi costanti: primo, il Partito Comunista, definendosi non come una semplice e sostituibile forza di governo, ma come il “nucleo dirigente” della comunità nazionale investito di una missione storica a lungo termine (realizzare la modernità), si incarica di disegnare il quadro complessivo degli obiettivi nazionali di lunga durata delineando la strada e i mezzi per raggiungerli. A questo fine, si impegna anche a disegnare i tratti ideali della società del futuro, inevitabilmente caratterizzata sia da un elevato sviluppo materiale e tecnologico che da un accresciuto livello spirituale e morale. Secondo, per portare la popolazione a identificarsi con la propria visione della società e mobilitarla a realizzarne gli obiettivi, provvede sistematicamente a cooptarne le aspettative e i desideri del futuro plasmando nello stesso tempo le qualità umane necessarie al raggiungimento dei traguardi prefissati. In tutto questo, ci sono due caratteristiche specifiche della “politica del futuro” del Partito Comunista su cui mi pare valga la pena soffermarsi.
In primis, la costruzione del tempo storico. I comunisti hanno ereditato e conservato una concezione della storia evoluzionistica, inserita a tutt’oggi in una matrice positivistica, che vede la società come un corpo organico in continua trasformazione che si sviluppa in modo lineare e prevedibile attraverso stadi progressivi, sospinto dinamicamente dalla lotta dei suoi componenti interni. Naturalmente la filosofia della storia su cui il Partito fonda questa visione rimane tuttora il marxismo, per quanto da tempo sfrondato dei suoi aspetti “rivoluzionari” connessi alla dialettica della lotta di classe. Tuttora, il Partito si appella al marxismo per individuare “scientificamente” le “leggi di sviluppo storico della società umana”, definendo le diverse fasi dello sviluppo come “epoche” (shidai 时代) caratterizzate alla “base” da uno specifico modo di produzione, a cui deve necessariamente corrispondere, innalzandosi sopra di esso, un determinato “spirito epocale” (shidai jingshen 时代精神), ovvero un complesso sistematico di atteggiamenti e comportamenti utili alle particolari esigenze di sviluppo del periodo.
A partire da questa visione “scientifica”, il Partito struttura ulteriormente il tempo storico organizzandolo attraverso la pianificazione “socialista”, che lo segmenta in unità discrete misurabili e amministrabili, come avviene per esempio nella formulazione dei piani quinquennali e nei calcoli della crescita del PIL. La visione scientifica del progresso storico, però, è inseparabile dall’immaginazione utopica, che si sostanzia e si alimenta, come si è visto, di suggestioni che vanno ben oltre il semplice retaggio comunista. La progressione programmabile e controllabile del tempo, perciò, conduce inesorabilmente verso un telos collocato in un’epoca di là da venire – sufficientemente distante per essere utopia ma abbastanza vicina per essere concretamente immaginata – che si configura, a tutti gli effetti, come il fine, e forse anche come la fine, della modernità stessa. Si tratta, nella Cina di oggi, del 2049. Una data immaginata come il capolinea della lunga e travagliata marcia della Cina verso la modernità, che coincide con il conseguimento dell’autosufficienza nazionale, il cui corollario utopico è l’esaurirsi della ratio della lotta, il cristallizzarsi della pace sociale, il dispiegarsi di tutte le potenzialità umane, e infine il pieno godimento dei diritti e il raggiungimento della felicità per tutti. Per quella data, profetizza il Partito, la Cina avrà completato la “modernizzazione socialista” (shehuizhuyi xiandaihua 社会主义现代化), e sarà ormai “ricca e potente” (fuqiang 富强), “democratica” (minzhu 民主), “civile” (wenming 文明), e “armoniosa” (hexie 和谐): tutti attributi che non si limitano a declinare la particolare visione della modernità invocata a partire dai paradigmi ideologici odierni, ma che dovrebbero essere considerati, piuttosto, come un aggregato delle molteplici articolazioni storiche della modernità cinese sedimentatesi cumulativamente nelle varie epoche.
In secondo luogo, il ruolo del passato. Come ricorda Jurgen Habermas, citando Rheinart Koselleck, in quanto epoca rivolta per sua vocazione al futuro la modernità è marcata dalla “crescente differenza” fra “l’ambito dell’esperienza”, situata nel passato, e “l’orizzonte delle aspettative”, situate nel futuro. “Ma lo sguardo diretto al futuro”, precisa lo stesso Habermas, “si rivolge sempre dal presente verso un passato che è connesso, quale preistoria, con il nostro presente d’ogni volta, come dalla catena di un destino comune”.11) Difficilmente questa osservazione potrebbe essere più vera che nel caso del Partito Comunista Cinese. Quest’ultimo, infatti, nella sua inesausta programmazione del futuro, non si limita a delineare, a ogni tornante della propria storia, i tratti che questo deve assumere e la strada da percorrere per realizzarli, ma si impegna sistematicamente a rivisitare, rimodellandolo, il passato, così da risemantizzarlo alla luce degli obiettivi da conseguire nel futuro. Lo abbiamo visto per esempio a proposito del riutilizzo dei concetti di xiaokang e di datong (ma di esempi ce ne sarebbero un’infinità). “Guardare al futuro, usando il passato come specchio” (yi shi wei jian, mianxiang weilai 以史为鉴,面向未来), amano ripetere oggi i leader cinesi, costantemente intenti a dragare il fondale della tradizione per ripescarvi quelle antiche nozioni venerande che meglio si sposano con le loro teorizzazioni del momento.
L’idea stessa della storia come “specchio” (jian 鉴), d’altronde, è a sua volta una nozione tradizionale molto antica, essendo una classica metafora del repertorio confuciano indicante la funzione esemplare della scrittura storiografica, il cui fine sarebbe appunto quello di riflettere il passato per illuminare la condotta da tenere nel presente. Di fatto, lo specchio di cui si servono i leader cinesi è uno specchio cangiante, fortemente prospettico se non semplicemente deformante, che illumina il passato solo in modi e secondo prospettive che permettano di giustificare i fini progettati nel presente, e i mezzi architettati per raggiungerli. Così, la rivisitazione del passato, oggi, nell’ottica di Xi Jinping, serve soprattutto a rimodellare, cementandola, la memoria nazionale, al fine di identificare un’origine comune e una traiettoria unitaria alla missione del “sogno cinese”, connettendo passato presente e futuro in un continuum ininterrotto di esperienze immaginate che abbiano il senso di un destino personale e collettivo. Lo attestano proprio le parole di Xi Jinping, che, nel suo primo discorso ufficiale tenuto durante la visita al Museo Nazionale nel novembre del 2012, enunciando per la prima volta la visione del “sogno cinese”, ha esordito in questo modo: “La mostra Sulla strada della rinascita ha riesaminato lo ieri della nazione cinese, ne ha palesato l’oggi, e ne ha annunciato il domani, così da dare alla gente un insegnamento e un’ispirazione profonda”. Quindi nello stesso discorso è passato a rimemorare l’antica grandezza della Cina, le sofferenze e i sacrifici inenarrabili del periodo coloniale, le indomite battaglie per far tornare i cinesi a essere padroni del loro destino, le soluzioni vincenti che hanno portato agli impressionanti successi del presente, e infine il futuro radioso che l’oramai più che centenaria “lotta” nazionale è infallibilmente destinata a realizzare – a patto che nuova lotta venga gettata nell’impresa.
A rinforzare questa narrazione fra i giovani, infine, ci ha pensato la già menzionata campagna del Ministero dell’Educazione, la quale, nel chiedere agli studenti di tutta la Cina di raccontare la loro visione del “sogno”, li ha incoraggiati non solo a immaginare il proprio futuro “cinese”, ma anche, e soprattutto, a rimemorare a loro volta gli sforzi compiuti dai propri predecessori al fine di edificare le fondamenta della “rinascita”, per portarli a identificare se stessi come gli eredi e i continuatori di questa catena di sforzi patriottici. Certo è assai difficile valutare se quest’ultima ondata di interpellazione ideologica sia stata davvero efficace: basti ricordare, in proposito, che il Partito è uso riformulare radicalmente le proprie coordinate ideologiche solo quando, a causa di una grave crisi politico-sociale, i paradigmi precedenti hanno smesso di funzionare; il grande battage ideologico del sogno cinese, parimenti, è stato lanciato proprio in un momento in cui, data la diffusa percezione che l’ascensore sociale azionato dalla crescita economica si fosse bloccato, la fiducia nel Partito e nelle istituzioni era scesa ai minimi storici. In buona sostanza, è difficile credere che i giovani cinesi siano disposti a mettere in secondo piano il loro “piccolo” sogno di realizzazione personale per anteporvi quello della “grande rinascita” nazionale. Detto questo, bisogna comunque riconoscere che l’orgoglio patriottico suscitato dalla narrazione identitaria del sogno cinese è indubitabilmente un efficace fattore di coesione sociale.
Un treno chiamato Rinascita
Oggi, man mano che i leader cinesi sentono avvicinarsi l’arrivo della “rinascita” – e con essa il ritorno all’antica grandezza perduta con l’irruzione dell’epoca moderna – non si accontentano più di evocare il passato per sottolineare il suo legame identitario col presente: è il futuro stesso, ormai, a essere sempre più spesso vestito con i panni del passato. Così, se da una parte Maurizio Scarpari ha osservato come negli ultimi anni ci sia stata una crescente rivalutazione, da parte del Partito, della cultura tradizionale, e specialmente dei valori confuciani, dall’altra William Callahan ha notato come i futurologi cinesi, da un po’ di tempo a questa parte, amino parlare sempre più spesso di datong. Certo, il futuro della Cina continua a essere immaginato principalmente in termini di “ricchezza e potenza”, essendo la futurologia cinese sempre impregnata, dice Callahan, di una “catch-up mentality” (“superare economicamente, militarmente e politicamente gli Stati Uniti”) che affonda le sue radici direttamente nel Grande Balzo in Avanti. Tale ricerca di ricchezza e potenza, però, non è semplicemente rappresentata come un fine in sé, ma come il mezzo per permettere alla Cina tanto di realizzare l’armonia sociale in patria quanto di partecipare più attivamente al mantenimento dell’ordine internazionale, contribuendo a creare in questo modo un mondo più pacifico e virtuoso. La crescita economica e politica della Cina è raffigurata, in questo senso, anche come la crescita di una forza morale, grazie alla quale la Cina stessa, avvalendosi della saggezza della propria tradizione ormai rigenerata, saprà persuadere le nazioni di tutto il mondo a mettere da parte i loro piccoli egoismi cooperando in modo responsabile per costruire finalmente “un mondo che sia di tutti”. Un sogno di concordia che in verità ricorda, più che quello utopistico del Liji o di Kang Youwei, quello egemonico di Liang Qichao.
Un sogno a cui si fa in verità un po’ fatica a credere, specie se si guarda a quella che è la realpolitik effettivamente promossa oggi dal Partito Comunista. Così, se ci interessa capire come i leader cinesi sognano davvero, oggi, il futuro della Cina, forse dovremmo evocare un altro ideale, che appare decisamente più in linea con la realtà rispetto a quello del datong: quello del treno ad alta velocità. Chi si è trovato a prendere la metropolitana di Pechino, negli ultimi anni, forse sarà rimasto colpito nel vedere, all’ora di punta, drappelli di inservienti col megafono costretti a urlare per dirigere la calca e dare un ordine alle file. Chi si è trovato a prendere l’aereo, invece, avrà forse visto gruppetti di passeggeri assiepati attorno al desk degli imbarchi, intenti a protestare animatamente per il ritardo indefinito del proprio volo. Chi ha preso l’alta velocità, viceversa, si è trovato a transitare in stazioni immacolate in cui non vola mai una mosca, ha preso il treno in perfetto orario su banchine dalle file ordinatissime, e, una volta a bordo, si è accomodato in un ambiente terso e luminoso in cui ognuno trova educatamente il proprio posto.
Il “sogno dell’alta velocità”, così si narra, avrebbe preso corpo, in Cina, dopo il primo viaggio di Deng Xiaoping in Giappone, nel 1978. A chi gli aveva chiesto che cosa pensasse dello Shinkansen che lo portava sfrecciando da Tokio verso Kioto, il piccolo timoniere aveva detto semplicemente, con gli occhi che gli brillavano per l’ammirazione, che era “veloce”, e che era adattissimo ai tempi perché “ti spronava a correre”. Da allora la Cina ha costruito più di 22.000 chilometri di reti AV, che innervano in modo capillare quasi tutto il suo immenso territorio connettendo le sue moltissime metropoli. Gli Stati Uniti, per intenderci, di reti AV ne hanno meno di 10.000, un ritardo che i media cinesi non hanno mancato di sottolineare stimolando l’orgoglio patriottico per avere surclassato il rivale americano. Come se non bastasse, l’ultimo treno recentemente entrato in funzione, in grado di connettere gli oltre 1.318 chilometri che separano Pechino e Shanghai in poco più di quattro ore, è interamente made in China: una tecnologia, quella dell’alta velocità, che la Cina si appresta ormai ad esportare in tutto il mondo, a partire da Russia e India. Il nome del nuovo modello, se qualcuno avesse avuto dei dubbi sul simbolismo ideologico dell’alta velocità in Cina, è nientemeno che Rinascita. Il modello precedente, entrato in funzione nel 2009, si chiama invece Armonia. È dunque il treno ad alta velocità, in conclusione, il simbolo che meglio si presta a descrivere la società che il Partito Comunista oggi si sforza di costruire. È un simbolo di ricchezza e di potenza ma anche di armonia, intesa però come controllo tecnologico sulla macchina e tecnocratico sulla società. Metafora dello sviluppo cinese, è velocissimo, raggiunge sempre in orario i suoi traguardi per continuare la sua corsa inarrestabile, senza fermarsi mai. Inoltre, è manovrato da un unico macchinista, che guida i passeggeri nella stessa direzione, mentre questi se ne stanno tranquillamente ai loro posti. C’è un unico problema in questa macchina altrimenti perfetta: che è obbligata dalla sua stessa natura a correre ininterrottamente verso la meta prefissata, senza lasciare il binario che si è precedente costruita. A volte la sua smania di bruciare il tempo la porta a fare degli errori, le cui conseguenze possono essere anche piuttosto gravi.
[Qui per leggere l’articolo originale]Di Marco Fumian da Sinosfere*
**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.