Citato nell’articolo scritto per il Corriere della Sera da Xi Jinping poco prima della sua visita in Italia nel 2019, il sinologo Federico Masini – insignito del Premio Nazionale per la Traduzione del Ministero dei Beni Culturali nel 1990 – ha iniziato la sua carriera accademica come professore a contratto di Filologia Cinese presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza, dove dal 1997 al 2000 è stato professore associato di Filologia Cinese. Dal 2001 al 2010 è stato preside della Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma La Sapienza. Dal 2011 è prorettore alla Didattica dell’Università di Roma La Sapienza.
Federico Masini ha attraversato gli ultimi trent’anni di Repubblica popolare, di cui è stato raffinato osservatore (tra i suoi libri, oltre quelli sulla lingua e la grammatica cinese, ricordiamo Italia e Cina con G. Bertuccioli, pubblicato da Laterza nel 1996). In occasione dei 70 anni di Repubblica popolare non potevamo che rivolgerci a lui per trarre un bilancio e analizzare i momenti salienti della recente storia cinese.
Qual è l’evento di questi 70 anni più rilevante, considerando cosa è oggi la Cina?
Dal punto di vista politico credo che il momento maggiore di svolta sia l’89, quelli che in Cina chiamano «gli eventi dell’89» perché furono valutati in un modo ma ebbero un effetto diverso. Lì per lì furono considerati una rottura totale con il passato; gli anni ’80 furono anni di apertura straordinaria. Vero, ci fu la campagna contro «l’inquinamento spirituale» ma furono davvero un periodo di apertura inimmaginabile. Fu nei primissimi anni 80 che la vita delle persone cambiò. Si erano aperte prospettive di benessere anche individuali, clamorose. La tecnologia cominciava piano piano a intravedersi nella vita delle persone, per altro le grandi aziende dell’informatica sono cresciute proprio in quegli anni. Mi ricordo quello che poi divenne Zhongguancun: c’erano i primi garage dove si facevano i computer Lenovo. Tutto questo cambiò repentinamente subito dopo i fatti dell’89. La sensazione fu che si trattava della fine di tutto, chiusura totale, legge marziale, tank per strada. Si pensò che sarebbe cambiato tutto. In realtà sappiamo che ci furono anche tante vittime. Ma se vediamo quei fatti per l’allarme che generarono sulla politica e sulla dirigenza cinese, in realtà quello che accadde fu il segnale che serviva dare importanza a questioni che in precedenza non avevano avuto una sufficiente attenzione. Penso in particolare al ceto intellettuale, i docenti universitari, i ricercatori ad esempio che hanno beneficiato in maniera straordinaria rispetto alla relativa disattenzione che avevano avuto nei primi anni ’80. La stabilità cinese è fondata sulla soddisfazione del ceto intellettuale, le cui condizioni sono migliorate dopo l’89. Dal punto di vista materiale in precedenza il governo aveva un atteggiamento di maggiore attenzione per le classi produttive, erano quelle su cui si faceva leva e quindi i fatti dell’89 sono stati un rigurgito del mondo intellettuale, degli scienziati, di chi cominciava a viaggiare. Dopo l’89 invece sono stati valorizzati in modo straordinario soprattutto dal punto di vista economico e sociale.
Con quale scopo?
Intanto garantirsi la stabilità. La stabilità è fondata sullo sviluppo economico ma quest’ultimo è fondato sugli scienziati e sull’università, non parlo tanto del Pil di oggi ma quello di domani. Dopo Tian’anmen questo è accaduto, si è capito come valorizzare quel mondo ed è iniziata una parabola crescente che solo il futuro ci dirà se ha funzionato e se avrà o meno una battuta di arresto.
Quindi il periodo di tecnocrati, penso al decennio di Hu Jintao in particolare, è stato il frutto di questo lavoro? Preparare, cioè, un ceto intellettuale a diventare classe dirigente?
Sì c’è stata una iper valorizzazione del ceto intellettuale, facendo immaginare che addirittura potesse diventare una sorta di tecnocrazia, per quanto sia vago questo concetto. Poi si è chiuso questo periodo perché si è rivista l’importanza dell’ideologia, come dimostra l’attuale stato di cose in Cina.
Questa può essere una delle chiavi di lettura sul perché, ad esempio, la Cina non ha fatto la fine dell’Urss?
Intanto il motivo principale per cui la Cina non ha fatto la fine dell’Unione sovietica è dettato dalle differenze enormi nella storia dei paesi. E soprattutto perché la Cina ha capito che la stabilità era fondata su due aspetti: lo sviluppo economico cioè prospettive di sviluppo economico e il ceto intellettuale, gli scienziati. L’accoppiata rende possibile la stabilità. Pensiamo a Hong Kong, in questo momento quello che manca alla popolazione è proprio quella prospettiva.
Invece, se pensiamo alla fase più difficoltosa, ad esempio durante il grande balzo in avanti, come si è tenuto insieme il paese allora?
Era una Cina rurale al 90 percento, è difficile immaginare cosa abbia tenuto, ma anche in quel caso, però, la soddisfazione dei bisogni fu fondamentale. In qualche modo bisognava riuscire a soddisfare i bisogni della popolazione. Quelli della mia generazione hanno visto i cinesi morire d’inedia. Si tratta di una dimensione che oggi ci sembra impossibile. Questo aspetto è importante, per concludere il discorso sull’89: a partire da allora c’è stato il periodo di pacificazione interna più lungo nella storia della Cina. È difficile trovare un periodo della storia cinese nel quale non ci sono state rotture totali ampie per un periodo così lungo. Da allora sono passati trent’anni. Pensiamo ai trent’anni precedenti. Dal punto di vista della sopravvivenza di milioni di persone si tratta di un risultato incredibile, benché non cancelli gli errori fatti. Non si tratta di giustificare quanto di interpretare quanto successo. Tanto che i cinesi stessi non si sono mai messi in situazioni del genere negli ultimi trent’anni. Pensiamo a Hong Kong: i cinesi stanno facendo di tutto per non fare sì che la situazione degeneri.
A proposito di questo atteggiamento, per quanto riguarda Hong Kong, Xi Jinping è più saggio o non sa che fare?
Credo stia avendo un atteggiamento giustamente prudente. Negli ultimi dieci anni la Cina è cresciuta moltissimo a livello economico ma anche politico. Pensiamo alla diplomazia cinese, diventata finalmente multipolare, presente negli organismi internazionali. Sono tutti tentativi della Cina di cambiare la propria immagine a livello internazionale, pensiamo anche al sistema Confucio: nel bene o nel male sono tentativi di creare un’immagine positiva anche dal punto di vista culturale della Cina. Tutto questo potrebbe sparire in un battito di ciglia. Se succedesse qualcosa a Hong Kong paragonabile dal punto di vista mediatico all’89, sparirebbe tutto il lavoro fatto dalla Cina in questi anni. Xi Jinping vuole sgonfiare la cosa fino a quando si spegnerà da sola, certamente utilizzando qualsiasi metodo, come fanno tutti i paesi in situazioni del genere.
Quanto pesa nella valutazione che si ha nell’Occidente della Cina il fatto che è sempre l’Occidente a produrre conoscenza sui paesi non occidentali?
Ne soffriamo ancora oggi. Anche se da un punto di vista scientifico, ad esempio, si va assottigliando la differenza nella produzione di conoscenze. Solo chi non conosce l’Asia non vede quanto sta succedendo. Pensiamo solo agli investimenti nella fisica di base che sono stati fatti, la loro capacità di investire in ricerche scientifiche prive di un immediato ritorno tecnologico ed economico. La Cina investe, come fecero gli Usa negli anni ’50, su ricerca di base sovvenzionando esperimenti costosissimi il cui risultato non si sa se avrà un esito tecnologico e commerciale, ma si sa che in una prospettiva di lungo termine porterà dei vantaggi. In questo hanno lungimiranza. Il vulnus cinese è nel sistema giuridico, la mancanza di un formale sistema giuridico. I limiti dei sistemi giuridici esistono ovunque, pensiamo al caso Cucchi. Ma il fatto che arriviamo a scoprirlo, ci fa pensare che il sistema abbia delle garanzie che invece in Cina sono mancanti. Di sicuro c’è l’assenza di un sistema giuridico fondato come da noi, dove ha dovuto per altro fare i conti con l’opinione pubblica.
Come può la Cina gestire questa nuova situazione di potenza mondiale, in grado di proporre anche un sistema di governance globale?
In questo senso la Cina ha qualche difficoltà perché non ha nessuna esperienza pregressa. La Cina non ha mai avuto relazioni internazionale per 3, 4 mila anni fuori dai propri confini. Noi in questo abbiamo una certa storia. Il concetto di tianxia ad esempio («tutto quanto è sotto il cielo», si tratta di un concetto cardine nella cultura cinese ndr) era legato a paesi confinanti. Il tianxia era la proiezione del cielo sulla terra il cui centro era occupato dalla Cina e tutto quanto stava intorno, cioè che confinava con il centro, era il mondo che doveva avere un atteggiamento sussidiario rispetto al centro. Questo modello oggi è difficile da immaginare, perché oggi la Cina prova nuove strade all’interno delle quali però non ha un’esperienza reale. Sono dinamiche lontane e talvolta sembra muoversi in modo poco opportuno, poco sensibile e poco attento in questi movimenti. Cosa ci riserva il futuro dipende per questo anche da noi, dal nostro modo di governare il rapporto con la Cina. In questo i tedeschi sono stati bravissimi ad esempio, molto più bravi di noi. Hanno relazioni straordinarie con la Cina sia economiche sia politiche, sono riusciti a stabilire una relazione paritaria su tanti aspetti, hanno garantito stabilità alle relazioni, non hanno avuto sbalzi umorali come accade alla politica estera italiana. E questo sia nel campo della sinologia sia nei commerci ha dato risultati importantissimi, pensiamo che la Germania non ha neanche firmato il memorandum.
Hanno anche creduto alla Cina quando altri se ne sono andati…
Sì, erano anni tra l’altro in cui noi avevamo il primato assoluto con la Cina. Andreotti fu il primo ministro europeo a tornare Pechino dopo il 1989. La Fiat fu la prima azienda al mondo, prima dei giapponesi, ad avere un suo ufficio di rappresentanza in Cina. Eppure a un certo punto la Fiat decise di investire in Sudamerica. La prima fornitura di auto straniere alla dirigenza cinese fu proprio la Fiat per capirci, era un pacchetto di Argenta, le macchine lussuose della Fiat di allora. I tedeschi iniziarono poco dopo con la Volkswagen, interfacciandosi proprio con quel mondo intellettuale e scientifico di cui parlavamo prima. La Volkswagen creò importanti centri di ricerca, ha finanziato la ricerca in Cina, si è collegata ai due mondi di cui parlavamo prima a quello produttivo e quello tecnico scientifico.
Che cos’è oggi la Cina, cosa la tiene insieme, quel è il collante? Si può parlare di un nazionalismo cinese? E cosa significa?
È una questione fondamentale per capire la Cina di oggi ed è piuttosto complicata. C’è un rapporto proporzionale tra un conflitto esterno e l’utilizzo e lo sviluppo di una sensazione di nazionalismo o «cinesità» al loro interno. È una cosa ineffabile che fa sì che qualsiasi cinese si senta parte di una storia, di una tradizione, di una identità culturale, linguistico letteraria. Qualunque cinese, perfino quello costretto a stare a lungo all’estero, pensiamo ai cinesi che hanno avuto un ruolo politico nell’89 che vivono negli Usa, vivono in realtà questa lontananza come una reclusione. Manca qualcosa, si tratta di più di una semplice nostalgia. Cosa è questo? Secondo me è la tradizione, così ineffabile che i cinesi per certi versi hanno perfino un problema di identità culturale. Prova a chiedere a un cinese, cosa è la cultura cinese? Non è facile per un cinese rispondere a questa domanda. La Cina cos’è? Una parte della nostra difficoltà è proprio quella di cercare insieme, con i cinesi, qualcosa che possa aiutarci a rispondere a questa domanda e capace di interpretare la cultura cinese. La calligrafia forse potrebbe essere qualcosa che unisce ma non è detto. Questa tradizione culturale in cui ognuno si riconosce è legata alla lingua e quindi alla scrittura. Probabilmente se dovessimo chiedere a un cinese quale sia la quintessenza del nucleo cinese direbbe che si tratta del wen, la scrittura e la lingua cinese. E se guardiamo la storia cinese è cambiato tutto ma tutto è rimasto legato dalla lingua, unico elemento che ha una continuità storica e ha un primato a livello mondiale (nessun’altra lingua può vantare una tradizione ininterrotta come quella cinese, neanche quella ebraica) nei tanti cambiamenti che si sono succeduti in Cina.
A questa cinesità si fa ricorso tutte le volte che si vuole contrastare un nemico esterno. È il motivo per cui secondo me non esiste una classe di dissidenti in Cina; ci sono casi drammatici, tristi, ma niente che possa assomigliare ad esempio al fenomeno dei dissidenti dell’Unione sovietica, nonostante alcuni studiosi come Jean-Philippe Béja utilizzino il modello sovietico per analizzare la Cina, ma si tratta di uno strumento che non funziona. Si tratta di un fenomeno sporadico, perché il connubio tra potere politico, forze produttive (e con esse la prospettiva di un continuo miglioramento) e il ceto intellettuale fa sì che forme di dissidenza in Cina fatichino ad attecchire. Si tratta di una triangolazione che costituisce la chiave di tutto. Se questa triangolazione si spezza c’è un pericolo. E come potrebbe accadere? Ad esempio se ci fosse una crisi economica. Ora, la Cina deve rallentare ma deve continuare ad andare avanti riorentandosi. Parallelamente l’ambito scientifico continua a essere finanziato e il partito all’interno di questi due blocchi tiene tutto in equilibro. Se questo funziona la Cina continuerà a funzionare. Se si spezza rischiamo di vedere quello che nessuno di noi vorrebbe vedere. Per i cinesi la stabilità è tutto.
Xi Jinping che sintesi sta cercando, tra Confucio, Mao e Deng? Qual è il suo contributo attuale alla storia della Cina?
Il suo contributo è quello di provare a sfruttare di nuovo l’aspetto della figura unica che Deng per esempio non ha mai sfruttato. Deng era nelle condizioni di creare un culto della personalità ma non l’ha fatto. Zhou Enlai pure, forse non aveva le condizioni. Dopo di lui anche altri hanno percorso altre strade, pensiamo a Zhu Rongji o a Hu Jintao. Non Li Peng che quando parlava appariva troppo duro. Insomma tutti questi leader non hanno attinto al bacino cui ha attinto Mao. Xi Jinping da un punto di vista della tradizione cinese vuole provare a utilizzare l’aspetto individuale. Si tratta di quanto chiamiamo «culto della personalità» che anche in Cina è sempre a scapito delle istituzioni. In questo i cinesi sono stati dei maestri, tutte le volte che cresceva una persona o una struttura che si identificava con una istituzione veniva sostituita nel bene o nel male. Ciascuno di noi ha un tempo scaduto, le istituzioni no. Mi è capitato di vedere la sostituzione di persone bravissime quando hanno cominciato a mettere in ombra le istituzioni. Questo ha contraddistinto gli ultimi 30 anni e lo scarto di Xi forse mette in luce la mancanza di contrappesi. In realtà in qualche modo continuano a esserci benché sia complicato accorgersene. Negli anni ’80 leggevamo i giornali di Hong Kong in cinese e avevamo la percezione di avere informazioni prima che uscissero in Cina. C’erano dei meccanismi che consentivano di interpretare cosa sarebbe potuto succedere. Oggi tutto questo è molto più complicato. Non mi immagino però una Cina monolitica priva di dinamica, statica perfino politicamente. Continuano a esserci dinamiche politiche, semplicemente sono più complicate per noi da capire.
Questo può suonare strano oggi, considerando il peso anche mediatico della Cina attuale, molto più importante rispetto a qualche anno fa. E questo in teoria dovrebbe anche facilitare una conoscenza del paese.
Le cooperazioni, le collaborazioni tra Cina e media stranieri sono frutto di un lavoro pesante che ha portato a un’immagine generalmente positiva della Cina. Questo però non significa capire meglio cosa succede all’interno del mondo della politica cinese.
Come si può allora raccontare la Cina di oggi, senza cadere in letture univoche e anzi cercando proprio di valorizzare tutto quello che è la Cina, nel bene e nel male?
Con onestà: tutte le volte che qualcosa non piace, scegliendo il contesto giusto, non bisogna fare sconti a nessuno. Dobbiamo provare anche a parlare con i cinesi dicendogli quanto pensiamo, partendo dal principio che l’immagine della Cina è tante cose. L’unico dovere che noi abbiamo è fare in modo che si conosca la Cina, con tutte le sue diverse sfaccettature. Abbiamo un gap troppo ampio di conoscenza. Io ricordo che studiavo cinese e non avevo mai visto un cinese. Andavo fuori dall’ambasciata per vederli i cinesi. Quel senso di estraneità va eliminato ed è possibile farlo. Basta poco, poi naturalmente ognuno deciderà come interpretare il fatto che la Cina c’è, esiste.
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.