La notte di ieri ha visto un inasprimento notevole del confronto tra manifestanti e polizia di Hong Kong. Al termine di una giornata contraddistinta da scontri, cariche e lanci di molotov, in serata la polizia ha deciso di imboccare i manifestanti anche in alcune stazioni della metropolitana (Mong Kok e Prince Edward) finendo per spaccare teste e ferire numerose persone.
LE IMMAGINI CHE I MANIFESTANTI hanno ripreso e che hanno veicolato attraverso gli account Telegram parlano chiaro. La polizia ha addirittura chiuso gli ingressi delle stazioni per effettuare arresti e impedire i soccorsi. I manifestanti durante la giornata non si erano tirati indietro nel confronto, provando diversi assalti al consiglio Legislativo e dimostrando di essere preparati anche a scontri con la polizia che, stando alle foto, ha fatto largo uso di agenti provocatori oltre che di idranti e lacrimogeni. Ma tutto ha poi preso una piega ben più violenta rispetto al suo inizio: per ovviare al divieto di manifestare il grosso degli attivisti si era accodato a un corteo di una comunità cristiana.
Quanto sta accadendo sul campo segn uno spartiacque tutto da capire nella vicenda che da mesi ha portato Hong Kong all’attenzione mondiale.
SAPPIAMO PER ORA alcune cose, ne ignoriamo altre. Sappiamo che i manifestanti sono tanti, con istanze diverse: la maggioranza chiede il suffragio universale in primo luogo; si tratta di una richiesta che si muove all’interno della teoria di «un paese due sistemi» cara a Pechino e che si basa sulle garanzie iscritte nella costituzione dell’ex colonia, ratificata anche da Pechino. Una parte dei manifestanti ha sicuramente ambizioni più indipendentiste, altri guardano agli Usa come supporto.
Queste diverse istanze hanno prodotto un movimento trasversale ma i più visibile, alla fine, sono i più organizzati come la formazione di Joshua Wong, sicuramente animato da buoni propositi ma spesso accostato a personale diplomatico o politico americano (gira una foto anche insieme a Marco Rubio non proprio un esempio di politico progressista).
QUESTO COMPORTA conseguenze: la Cina ha buon gioco a sostenere l’ingerenza straniera anche perché formazioni o persone meno interessate a prendere esempio dalla democrazia americana, hanno meno protagonismo. C’è poi un altro punto: a Hong Kong da tempo si discute di miglioramenti della vita dei lavoratori, di risolvere la questione degli alloggi, della vita grama dei tanti immigrati. Quest’ultimo punto risulta mancante nelle parole d’ordine dei manifestanti.
AD AUMENTARE LA COMPLESSITÀ di quanto sta accadendo a Hong Kong dobbiamo poi registrare la spaccatura del fronte governativo: sappiamo bene che Carrie Lam, la governatrice di Hong Kong, è nelle mani di Pechino, ma il suo tentativo di proporre alcuni compromessi (che sarebbero convenuti anche alla Cina) è stato bocciato dai cinesi. Significa che probabilmente la mediazione non ci sarà.
A questo punto bisogna dunque chiedersi in modo piuttosto brutale quale sarà, se ci sarà, l’epilogo di questa estate di Hong Kong. Al momento la Cina sembra affidarsi alla polizia locale: la repressione dei giorni scorsi attraverso retate di manifestanti e quella di strada di ieri sembrano il risultato di una via libera definitivo di Pechino a risolvere la cosa facendo perno sulla polizia locale.
Dovesse fallire anche questo tentativo è possibile pensare anche a conseguenze ancora peggiori. L’unica cosa che sappiamo è che il primo ottobre saranno 70 anni di Repubblica popolare cinese. E c’è da scommetterci che Pechino vorrà una Hong Kong «pacificata»
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.