Dopo l’ennesimo fine settimane di proteste e di scontri tra manifestanti e polizia a Hong Kong, su quanto sta avvenendo nell’ex colonia britannica ieri è intervenuto il portavoce dell’Ufficio affari di Hong Kong e Macao del Consiglio di Stato cinese. Un evento piuttosto raro: era dal 1997, l’anno del passaggio di Hong Kong dalla Gran Bretagna alla Cina, che l’ufficio non si palesava nella vita politica della città.
Il messaggio è stato piuttosto chiaro: le violenze devono terminare, la Cina sostiene polizia e governo locale (forse più la polizia in questo momento) e l’ordine deve essere ristabilito. Per fare questo il portavoce ha fatto un vero e proprio appello alla popolazione di Hong Kong, presupponendo che – al di là di essere pro o contro la Cina – una larga fetta dei cittadini dell’isola vogliano un ritorno alla normalità il prima possibile.
La conferenza stampa ha un significato evidente: Pechino aveva bisogno di dare un primo segnale, anche puramente comunicativo, sui fatti che ormai da oltre un mese stanno agitando Hong Kong.
Dalla proposta di legge sull’estradizione in Cina effettuata dalla chief executive Carrie Lam, ora tramontata in quanto definita «morta» dalla stessa Lam, via via le proteste si sono animate di altri significati: quelle più recenti sono contro la violenza utilizzata dalla polizia locale o contro il comportamento di alcune gang criminali associate alle Triadi locali, usate impunemente contro i manifestanti. In altri casi le manifestazioni hanno puntato il dito su obiettivi politici più a breve termine, come la richiesta di dimissioni di Carrie Lam.
Ma nell’animo delle migliaia di persone che hanno occupato quasi ogni giorno le strade della città, aleggia un sentimento genericamente anti-cinese che complica la possibilità di tramutare la mobilitazione in una reale proposta politica, almeno che i manifestanti non siano così ingenui da ritenere che la Cina possa mollare, prima o poi, la presa su un territorio che considera suo (e che di fatto lo è stato per gran parte della sua storia).
Pechino ha buon gioco, per ora, a denunciare le supposte violenze dei manifestanti e il disordine che sta abitando la tradizionalmente business oriented Hong Kong, anche e soprattutto a fronte di una massa di manifestanti che al momento non sembra avere chiaro il proprio obiettivo.
Senza un risultato tangibile cui arrivare, anche attraverso mediazioni, diventerà difficile scontrarsi con il passare del tempo e la stanchezza che spesso finisce per pervadere questo tipo di movimento. Allo stesso tempo l’orizzontalità e l’assenza di una leadership unica delle proteste potrebbero garantire una «tenuta» nella speranza di sfruttare passi falsi di Pechino.
C’è infatti la possibilità che alle parole espresse ieri da Pechino possano seguire fatti, ma si tratta di un’ipotesi davvero remota. In questo momento Pechino non ha certo bisogno di aprire un fronte internazionale sulla vicenda Hong Kong, magari mandando propri soldati a risolvere il problema.
La conferenza stampa del portavoce dell’Ufficio affari di Hong Kong e Macao del Consiglio di Stato si è tenuta su un registro prevedibile: «Lo sviluppo della situazione a Hong Kong, in particolare gli atti violenti di un piccolo numero di elementi radicali, ha gravemente danneggiato la situazione generale di prosperità e stabilità di Hong Kong, ha messo a dura prova lo stato di diritto e l’ordine sociale della regione, ne ha gravemente minacciato la sicurezza, la vita e la proprietà dei residenti e ha scalfito il principio di fondo di un paese, due sistemi: azioni che sono assolutamente intollerabili».
Yang ha poi fatto un appello alla popolazione di Hong Kong, nella speranza «che i residenti possano vedere chiaramente la gravità della situazione attuale, denunciare i crimini commessi dai radicali e fermare le azioni che danneggiano la regione».
E proprio ieri la polizia dell’ex colonia britannica (acquisita da Londra al termine delle guerre dell’oppio a metà ’800 con cui le potenze straniere sconfissero l’impero cinese alla cui guida era la ormai moribonda dinastia Qing) ha fortificato l’ufficio di collegamento con Pechino, dopo l’ennesima giornata di proteste di massa di domenica, con nuovi scontri tra manifestanti e polizia.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.