Dimenticate semiconduttori, chipset, terre rare e intelligenza artificiale. La vera guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti potrebbe disputarsi tra gli scaffali di ospedali, supermercati e farmacie. Ne è convinta Rosemary Gibson, senior advisor di Hasting Center, istituto per la ricerca bioetica, nonché autrice di China Rx: Exposing the Risks of America’s Dependence on China for Medicine. Secondo quanto spiega Gibson in un articolo comparso sull’Arizona Capitol Times, negli ultimi 30 anni, l’industria farmaceutica americana ha delocalizzato gran parte della produzione all’estero. Tanto che al momento gli Stati Uniti non sono più praticamente in grado di produrre antibiotici generici usati per curare infezioni dell’orecchio, mal di gola, polmonite, infezioni del tratto urinario, malattie veneree e altre patologie. L’ultima fabbrica per la produzione della penicillina ha chiuso i battenti nel 2004.
A riempire il vuoto ci ha pensato la Cina, leader mondiale grazie ai suoi prodotti a basso costo. Ad oggi il gigante asiatico sopperisce al 40% delle componenti attive (API) presenti nei farmaci americani e all’80% degli ingredienti utilizzati dall’India, primo fornitore globale di farmaci generici. A livello pratico vorrebbe dire che se gli Stati Uniti smettessero di rifornirsi dalla Cina nel giro di un paio di mesi le farmacie americane rimarrebbero vuote. Oggi le medicine “made in China” più acquistate sull’altra sponda del Pacifico spaziano dagli antidepressivi alle pillole anticoncezionali fino alle terapie per l’HIV/AIDS, diabete, Parkinson ed epilessia. Al ritmo attuale, nell’arco di un decennio, la produzione nazionale della maggior parte dei farmaci generici si estinguerà in favore della Cina, avverte Gibson. Con tutti i pericoli del caso. Tra il 2007 e il 2008 centinaia di americani sono morti in seguito alla somministrazione di eparina contaminata in arrivo dalla Repubblica popolare, mentre solo lo scorso anno la Food and Drug Administration ha bandito i prodotti di 32 aziende cinese dopo il caso dei farmaci per la pressione contenenti sostanze cancerogene in proporzioni oltre 200 volte superiori ai limiti ammessi.
I rischi della dipendenza cinese sono diventati evidenti quando il governo degli Stati Uniti – dopo una serie di attacchi all’antrace nel 2001 – ha dovuto acquistare 20 milioni di dosi di doxiciclina da un’azienda europea che si riforniva a sua volta oltre la Muraglia. Ma da quando la guerra commerciale ha messo a repentaglio la catena di approvvigionamento globale c’è già chi negli States ha persino proposto di rendere i medicinali una risorsa strategica alla pari delle forniture energetiche e alimentari. Non a caso i farmaci rientrano tra i pochissimi prodotti graziati dalle ultime minacce tariffarie di Trump. La salute dei cittadini non è l’unico motivo di apprensione. Come spiega Gibson, il controllo cinese sulla distribuzione di medicinali all’esercito americano ha implicazioni enormi a livello di prontezza militare e sicurezza nazionale.
A preoccupare gli esperti è soprattutto l’apparente inconsapevolezza del governo a stelle e strisce, laddove la Cina si appresta a cementare il mercato domestico. Non per nulla il farmaceutico rientra – insieme all’automotive e alla robotica – tra i comparti strategici coperti dal controverso piano “Made in China 2025”, mirato a rendere la seconda economia mondiale autosufficiente per il 70% dei materiali di base. Ancora più specifico il progetto Healthy China 2030, varato nel 2016 con l’intento di assicurare alla popolazione farmaci di qualità a prezzi accessibili dopo una lunga serie di scandali legati alla vendita di vaccini contraffatti. Una legge che promette severe sanzioni per i trasgressori è stata recentemente approvata in terza lettura dall’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese. Al contempo, un paio di anni fa, la China Food and Drugs Administration ha introdotto normative più stringenti con l’intento di consolidare la frammentaria industria farmaceutica, macchiata da casi di corruzione e in balia di intermediari e distributori. Nel giro di un quinquennio la nuova politica potrebbe vedere scomparire oltre la metà dei 2.900 produttori nazionali in nome di una maggiore efficienza. Ma non tutto sembra procedere come da programma.
Per Gibson, la locomotiva cinese – trainata da prezzi low cost e controlli disinvolti – comincia a perdere velocità. La causa sarebbe da ricercare nella lotta all’inquinamento lanciata da Pechino cinque anni fa e nell’incapacità delle aziende di adeguarsi ai nuovi standard ecofriendly. Nel novembre del 2017, solo nell’area Beijing-Tianjin-Hebei ben 144 impianti per la produzione di principi attivi sono stati costretti a chiudere per violazioni durante il trattamento dei rifiuti.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.