Le palme ondeggiavano dolcemente. L’aria entrava fresca in gola come se prima d’allora non ci fosse mai stata né aria né gola. Era una respirazione differente, nuova. Al di là della spiaggia un giardino curato. Il verde spumeggiava di un verde smeraldino come le onde del mare. Le nuvole erano alianti senza ali che spingendo il vento creavano quella dimensione che nei sogni si riconosce come sogno. Eppure ero sveglio. Lontano da Pechino, lontano dalle tempeste di sabbia, dal tumulto dell’ansia e dal grido strozzato della sua notte nero pece. Le ciminiere, le industrie, erano ancora là, ma i fumi e gli odori delle viuzze del Gulou non mi raggiungevano più, e tornavo a essere libero come non ero mai stato prima. Una serie di pensieri, grovigli di forme geometriche, container in alto mare, navi mercantili e marinai, si susseguivano in un pensiero non pensiero che col pensiero avevano poco a che fare, ma affascinavano: erano un non pensiero, così come può esserlo un dipinto al muro. E non mi conoscevo più, ero un flusso di luce nella luce del meriggio e pulsavo una luce che respirava con ritmicità. Soffusa e potente. Ricca di vita.
Avevo immerso i piedi tante volte nel mare, mai però in quello della Cina del Sud. Erano in acqua, pensavo, cercando di muoverli, ruotando le dita tastando la sabbia sotto la pianta. E non c’erano sassolini né ghiaia, solo sabbia, soffice, pura, molliccia. La stessa sabbia che si desidera quando si pensa a posti lontani, quando si vuole scappare da tutto e tutti, senza saper bene come fare, dove andare. Come quando si sa che bisogna partire, andare via. Ecco, era esattamente quella sabbia. Potevo anche sentire il flusso caldo e avvolgente della corrente. Incredibile come questo mare, a mo’ di placenta di madre, fosse impercepibile! Come indossare un guanto di seta liquida. Matrioska di fluidi cosmici. Uomo, mente, mente, uomo, altro, l’Altro.
Dovevo abbandonare tutto e trasferirmi quanto prima; dovevo seguire quel flusso marino senza flusso, incondizionatamente. Perché avevo da fare, era come un richiamo. Dovevo seguire il tintinnìo che veniva dalla caverna. Liberati! Liberati! Una voce dal profondo seguimi! Come un sussurro. Sì, ma quale voce?
Stavo forse impazzendo?
Un alito di vento mi fece trasalire. Gli alberi forti e fieri come soldati antichi si abbronzavano sotto un sole sconosciuto. Poi vi erano fiori, tanti fiori. Nessun pesce nuotava durante l’ora della siesta, anche se non
vi era nessun pericolo. Nessuna lenza, nessuna barca. Solo libertà. Mi voltai a guardarla mentre mi osservava con quel suo fare interrogativo. Guardava un po’ me un po’ il sole mettendosi la mano davanti agli occhi, lasciando filtrare solamente alcuni raggi per truccarsi le palpebre con ombretti di luce.
«Andiamo via dài, sono stanca, torniamo più tardi, ho un forte mal di testa.»
«Eccomi arrivo…» risposi prendendola per mano.
Spalle all’oceano c’incamminammo verso l’albergo, non riuscendo a non girarmi ad osservare tutto quello splendore che cercava di ammaliarmi, gongolandosi un po’. Quel mare mi chiamava a due mani Vieni! Vieni! Vieni da me!, come un hawaiiana nuda coperta di fiori profumati in una stasi che solo ai tropici può essere così pura. Le onde continuavano a strusciarsi le une sulle altre e quel suono, quel suono maestoso, proveniva da ovunque, da sopra da sotto dai lati, come un tuono marino, un grido di delfino notturno. Ed io, che ho sempre avuto paura della notte se immerso in un liquido oscuro, non potevo fare a meno di rimanerne turbato, perché non si può vedere cosa si aggiri sotto e si è troppo fragili, decisamente troppo indifesi. Tornammo in albergo.
Ero convinto che quella mia prima sensazione fosse quasi una rivelazione, come un passaggio spazio-temporale. Prima o poi sarei tornato a Sanya; tant’è che qualche anno dopo ci andai con l’intenzione di non andare più via. Volevo trasformarmi in un flusso di materia sconquassando i contorni del visibile. Ma come fare come se non seguendo quello in cui avevo sempre creduto? Che la materia animata e inanimata, le pietre e tutte le sostanze, la chimica, la mente, fluiscono all’unisono, in un attimo che noi tutti chiamiamo eternità. E anche se quel giorno non pensai nulla di tutto questo, io ero già tutto questo. Senza saperlo. Ero un turista stanco e impagliato, questo ero. Un bel cappello sulla zucca, un sorriso a quattrocento denti, gambe svelte a muoversi in diverse direzioni per scoprire differenti e nuove situazioni: i locali, la frutta, la gente, un volo di uccello, sorrisi, cibi, lussi, droghe, animali; qualche fotografia. Seguivo il destino. Voi cosa avreste fatto al posto mio?
Ero giunto ai tropici dopo quasi quattro ore di volo e sei o sette anni a Pechino, la grande Capitale del Nord (in cinese Beijing), metropoli lugubre e misteriosa, antica; oggi spasmodicamente plastificata. Durante le primavere, il cielo settentrionale si vestiva di arancione, arancionegiallo e ocra, come il colore della sabbia del Gobi che, trasportata dai venti siberiani, volava sulla città coprendo tutto. Quei venti che parlano molteplici lingue percorrono sterminate distanze valicando monti e lontane steppe, sorvolando gli stessi luoghi in cui gli eserciti del Gran Khan avevano cavalcato sfidando il vento freddo, succhiando sangue di cavallo, massacrando oppressori e traditori, ladri e fuggiaschi.
Sentendo il freddo tagliente sulla pelle si poteva fantasticare il suono di nenie mongole e di canti russi: nemici ormai nascosti e invisibili, senza più selle e senza più onore. A Pechino i sellini delle biciclette, le macchine e le luci venivano filtrate come attraverso un velo fitto; lo smog, infatti, si mischiava alla luminosità della sabbia filtrando le insegne al neon delle strade. Mancava solamente che la gente cominciasse a correre atterrita gridando all’Apocalisse, ma solo per rispetto al vecchio Giovanni e alle sue notturne e visionarie psichedelie da pazzo.
Non era quasi mai veramente giorno. Il sole lo si poteva investigare anche a occhi nudi. La cappa dell’aria, malsana, cancerogena, era sempre lì, stagnante. Irrespirabile come petrolio. Ero in Cina, cosa ci volevo fare, nel Paese di Mezzo, per avventura e per disgusto della nostra Italia, del declino del nostro Occidente, abbandonato ormai a se stesso, perché incompreso. Ma il nostro dolore, il dolore di tutti, aveva fatto da collante. Avevo seguito i consigli del mio vecchio Enrico « usa la rabbia, amico, usa il dolore »; me lo ripeteva sempre quando c’incontravamo a casa o in rete, tra flussi elettronici di bit superveloci e qualche trella. Così me ne andai, come molti di noi hanno sempre desiderato fare. Bye bye. Ma questo avvenne dopo, o prima?
Ricordo ancora il primo corridoio d’aereo, la prima hostess, con il suo vestitino che sapeva, che serviva a coprire solo per l’occasione, mentre mi allontanavo da tutto il mondo conosciuto. Le lacrime scendevano libere, libere di affermare il mio io. Potevo dirlo forte. Ora partirò madre, ora partirò padre, ora partirò amici, ora partirò vecchi tutti, vecchi dentro. Voi con le vostre lavatrici sempre pronte al lavaggio, le vostre convinzioni da pinacoteca, i vostri panini da paninoteca; voi che avete infangato la società con il vostro non voler fare e il non voler ascoltare; che andate avanti senza porvi domande e che, quando lo fate, vi ponete domande errate; voi che vi siete dimenticati di tutto quel ch’è stato, che vi dimenticate dell’onore e del sangue, degli abissi e delle vette del nostro più profondo essere; voi, che non badate più all’oltreluogo, che non conoscete più l’oltreumano, che non badate più all’oltretempo. In cui tutti siamo! L’infinito. Ah, non lo sapete? Allora tacete! Ascoltate! Ascoltate gente, io me ne vado! V’interessa vero? Me ne vado! C’incontreremo ancora, sicuramente, ma sappiate una cosa: nessuno può scappare da se stesso, neanche voi che fingete di rimanere, voi fuggite più di me che vado via! Nessuno potrà mai scappare da se stesso, né ora, né mai! Era il suono dei motori dell’aereoplano, un abbaiare rabbioso e impaurito.
Io che non ero mai riuscito ad aggredire nessuno, che odiavo lo scontro, e non ho mai voluto fare la guerra tra uova.
Non rimaneva allora che partire, senza sapere quando tornare, senza sapere dove andare, cosa avrei fatto, chi avrei abbracciato, in quali occhi mi sarei perso. Non mi restava che confidare. Delegare. Affidarmi al destino.
L’hostess mi portò il mio primo tè. Non era buono. Mi sembrò crudo, duro, come un pugno allo stomaco. Molto forte per i miei gusti d’occidentale di allora. Solo dopo, anni dopo, cominciai ad apprezzare il suo istinto cinese. La sua verità cinese.
*Francesco De Luca (Roma, 1979), laureato in Scienze della Comunicazione, ha studiato cinese presso l’Università di Lingua e Cultura di Pechino (BLCU). Per qualche anno ha collaborato con riviste come Outside, CCTV5, Traveller; ha poi fondato Chinasurfreport, primo webmagazine surf in Cina. Rientrato in patria nel 2015, lavora come interprete per il Ministero dell’Interno e per l’Associazione Sviluppo Italia-Cina. Collabora con le riviste “Satisfiction” e “4surf”. “Karma Hostel” è il suo primo romanzo.