Razzisti e irrispettosi dei diritti umani. Secondo la vulgata comune, gli imprenditori cinesi in Africa agiscono senza scrupoli, incuranti delle condizioni predatorie imposte ai partner locali. Ma è davvero così? Uno studio, il più completo fino a ora, parrebbe smentire molti dei luoghi comuni circolati negli ultimi anni.
Il report, realizzato dalla prestigiosa School of Oriental and African Studies di Londra dopo quattro anni di ricerche sul campo, prende in esame gli investimenti cinesi in Angola ed Etiopia, due degli stati africani in cui la Cina è più presente. Nello specifico, l’analisi è stata condotta tenendo conto dell’operato di 76 aziende – di cui 31 cinesi – oltre che della testimonianza diretta di 1.500 lavoratori angolani ed etiopi.
“La percezioni che si ha comunemente delle aziende cinesi in Africa è che non impiegano persone del posto, impongono condizioni di lavoro al limite dello sfruttamento e non contribuiscono allo sviluppo delle competenze [dei lavoratori], ma quanto da noi scoperto mette in luce una situazione molto diversa”, spiega nell’introduzione Carlos Oya, docente di Economia politica dello sviluppo presso la Soas, che ha diretto le ricerche. Infatti, sebbene lungi dall’essere impeccabile, il trattamento riservato dalle società cinese ai dipendenti locali si rivela di qualità non inferiore a quello dei competitor internazionali. A cominciare dalle assunzioni. La famigerata preferenza dei cinesi per i cinesi non trova conferma nei dati.
Stando al report, in Etiopia i lavoratori africani contano per il 90% della forza lavoro impiegata complessivamente (quando si parla di lavoratori poco qualificati le stime salgono al 100%), mentre in Angola, dove le assunzioni in loco sono generalmente meno frequenti a causa della scarsa preparazione dei lavoratori, la Cina impiega personale autoctono per il 74% del totale, in aumento rispetto al 50% di dieci anni fa. La predilezione per i connazionali si attesta invece nelle mansioni per cui la forza lavoro locale non è formata, come nel management, la finanza, la carpenteria o nella supervisione della produzione. Considerando che nel 2017 le società cinesi rappresentavano il 60% delle aziende straniere coinvolte in progetti edili, lo studio conclude che l’attivismo del gigante asiatico nei due paesi è il fattore che ha contribuito di più alla creazione di posti di lavoro nel settore delle costruzioni. In Etiopia, il primato cinese viene confermato anche nel manifatturiero.
Quanto agli stipendi, la ricerca non rileva una differenza sostanziale a seconda della nazionalità del datore di lavoro. A influire realmente sulla retribuzione sono le abilità professionali, l’esperienza lavorativa, lo status socio-economico e la posizione. Dove la paga risulta inferiore alla media, le aziende cinesi compensano fornendo vitto e alloggio, le due voci a pesare di più sulle tasche dei dipendenti. In Angola, dove vent’anni di guerra civile hanno stremato la popolazione e l’economia locale, l’attivismo cinese ha persino contribuito a ridurre la povertà, assoldando migranti originari dalle regioni del sud, quelle più arretrate.
Da tempo, Pechino è impegnato in una controffensiva mediatica volta a respingere le accuse dei paesi occidentali preoccupati – più o meno sinceramente – dalla scarsa tutela assicurata dalla Cina ai paesi in cui investe. Secondo quanto riportava nel 2017 l’agenzia statale Xinhua citando stime della Standard Bank, uno dei principali gruppi bancari sudafricani, nei due anni precedenti i capitali provenienti da oltre Muraglia – di cui la maggior parte allocati da aziende private – avevano fruttato oltre 30mila nuovi impieghi in tutto il continente. Questo nonostante all’epoca la Cina si attestasse soltanto settima per numero di progetti terminati o in costruzione.
“I fondi cinesi in Africa non sono destinati a opere di vanità”, ha sentenziato il presidente cinese Xi Jinping durante il Forum on China-Africa Cooperation dello scorso settembre, assicurando che gli investimenti cinesi verranno direzionati solo “dove serve”, affinché la popolazione locale sia in grado di ottenere “frutti tangibili”. Da allora, nonostante Pechino abbia incassato ripetutamente il sostegno dei partner africani nei dossier internazionale, la lunga marcia nel continente è proseguita a sobbalzi. Solo di recente, progetti “made in China” hanno subito una doppia battuta d’arresto in Kenya – dove il National Environment Tribunal ha bloccato la costruzione della prima prima centrale elettrica a carbone del paese – e a Bagamoyo, città portuale della Tanzania prescelta per diventare lo scalo marittimo più grande dell’Africa orientale. Il presidente tanzaniano John Magufuli ha motivato il ripensamento citando le “difficili condizioni di sfruttamento” imposte dai partner cinesi.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.