Sul sito ufficiale si definisce “fornitore affidabile di consulenze, soluzioni e servizi IT”. Ma Beyondsoft, azienda privata con base a Pechino e uffici sparsi in altre dieci città della Cina, deve ormai buona parte delle proprie entrate a un business inusuale seppur in rapida ascesa: la censura.
Con oltre 4000 impiegati, Beyondsoft offre alle media company servizi di revisione dei contenuti web h24 grazie a un complesso sistema di controllo che concilia la rapidità degli algoritmi con la perspicacia del personale umano. Quasi tutti ventenni freschi di studi disposti a lavorare per un compenso di 350-500 dollari al mese, un po’ meno di uno stipendio medio in una città di seconda fascia come Chengdu. Non il massimo, certo, ma sempre meglio che finire sulla catena di montaggio di qualche fabbrica dell’hinterland per turni di lavoro massacranti. A Beyondsoft, la qualità del lavoro ha la precedenza sulla quantità. Attenzione e precisione sono due requisiti indispensabili per chiunque aspiri a diventare “revisore”. Le competenze professionali, invece, si acquistano sul posto. Un training della durata di due settimane introduce i novizi ai segreti del mestiere. Chi è Liu Xiaobo? Cosa è successo il 4 giugno 1989 in piazza Tian’anmen? Sono domande a cui quasi nessuno degli apprendisti – cresciuti nell’era dell’internet “armonizzato” – sa rispondere prima di accedere al segretissimo database interno. Le informazioni acquisite – rigorosamente top secret – serviranno a completare il lavoro di scrematura effettuato da Caihong Dun (Rainbow Shield), un software che scandaglia le pagine web rintracciando le parole sensibili sulla base di un archivio di oltre 3 milioni di termini, di cui la maggior parte di natura politica (33%) e “pornografica” (22%). Il sistema identifica le parole sospette con vari colori ma non è in grado di percepire allusioni e rimandi tra caratteri omofoni di cui spesso si servono gli internauti per aggirare i controlli. E’ qui che entrano in gioco gli scrupolosi mediatori.
Questa sinergia tra intelligenza artificiale (IA) e personale in carne ed ossa è la formula vincente alla base della repentina fioritura di un’industria della censura altamente specializzata. Oggi la Cina conta oltre 800 milioni di utenti internet e la sottile linea rossa che divide ciò che è lecito da ciò che non lo è assume tonalità sempre più sfumate. Da quando lo scorso anno il governo cinese ha intensificato gli sforzi per ripulire la rete dai contenuti volgari, politicamente scorretti o colpevoli di trasmettere “energia negativa”, oltre 2,3 milioni di siti web sono stati rimossi contestualmente a un volume di oltre 24,7 milioni di informazioni ritenute yongsu (“volgari”). Una guerra all’ultimo post che non ha risparmiato nemmeno colossi come WeChat, Weibo e il Google cinese Baidu. Questo perché oltre la Muraglia le social media company vengono considerate veri e propri editori anziché semplici aggregatori di notizie. Tanto che dal 2016 una legge conferisce alla Cybersecurity Administration il potere di chiudere, multare o punire con sanzioni amministrative le piattaforme online disattente nella gestione dei propri contenuti.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.