Non si placa l’ira degli hongkonghesi per la controversa legge sull’estradizione che consentirebbe al governo dell’ex colonia britannica di consegnare i sospetti alla Cina comunista. Circa 2 milioni di persone hanno protestato per il secondo weekend di fila in quella che è stata definita dalla BBC la mobilitazione di massa più numerosa nella storia di Hong Kong. Le rimostranze si sono svolte pacificamente ma in un clima di diffidenza nei confronti della sospensione a tempo indeterminato dell’emendamento, annunciata sabato dal governo locale. Non solo la proposta potrebbe essere un giorno reintrodotta in parlamento. I manifestanti contestano l’utilizzo della parola “sommossa” per definire le proteste degli scorsi giorni e chiedono le dimissioni della chief executive Carrie Lam, vera promotrice della nuova disposizione. Lam si è scusata per la prima volta nella serata di domenica (per aver causato “controversie e dispute sostanziali nella società, provocando delusione e dolore tra la gente”) dopo aver strenuamente difeso la necessità di adottare la legge, accorciando persino la normale durata delle consultazioni pubbliche.
Cominciato all’indomani delle proteste per il suffragio universale del 2014, il mandato di Lam al momento non sembra in pericolo. Ma l’incapacità di mantenere gli impegni assunti cinque anni fa in qualità di mediatrice tra la vecchia amministrazione e i manifestanti oggi comincia a intaccare il risicato consenso riscosso tra la popolazione, la fedeltà dell’esecutivo e la fiducia dimostratale da Pechino. Dall’handover a oggi, bilanciare gli interessi di Hong Kong e quelli del governo centrale si è rivelato un compito arduo per tutti i leader locali.
L’ex colonia britannica è tornata alla Cina nel 1997 sotto il motto “un paese due sistemi”. Formula che – almeno sulla carta – dovrebbe assicurare a Hong Kong autonomia politica, economica e giudiziaria fino al 2047. In pratica, negli ultimi quindici anni l’ingerenza della mainland è diventata gradualmente più opprimente, compromettendo non solo il ruolo tradizionalmente esercitato dal “Porto Profumato” nella difesa dei diritti umani, sistematicamente violati sulla terraferma. Ma mettendone persino in discussione la credibilità come principale centro finanziario d’Asia, primato mantenuto fino a oggi – nonostante l’incombente avanzata delle megalopoli della Cina meridionale – grazie all’indipendenza dei propri organi giudiziari e alla tutela assicurata dalla minicostituzione locale di stampo anglosassone. La fuga di capitali verso Singapore riscontrata negli ultimi giorni da Reuters sembrerebbe confermare le preoccupazioni della comunità d’affari internazionale per la proposta di legge, sponsorizzata da Lam con l’intento conclamato di ripulire l’immagine di Hong Kong, accusata di lassismo nella lotta globale all’evasione fiscale e al riciclaggio di denaro.
Da quando l’emendamento è stato proposto a febbraio, il governo locale ha cercato di rabbonire i detrattori rimuovendo nove reati – in maggior parte economici – per i quali è possibile richiedere l’estradizione e alzando da tre a sette gli anni di detenzione minimi richiesti per ogni crimine. Concessioni che non eliminano i rischi derivanti dalla conseguente revisione della Mutual Legal Assistance in Criminal Matters Ordinance, che permetterebbe ai tribunali della Cina continentale di chiedere alle autorità giudiziarie hongkonghesi il congelamento e la confisca dei beni relativi a illeciti commessi nella mainland. Senza contare la discrezionalità con cui Pechino perseguita attivisti politici sulla base di reati finanziari reali o immaginari.
Per ora il governo centrale ha riaffermato il proprio sostegno all’amministrazione Lam. Ma, secondo fonti del Financial Times, le autorità comuniste avrebbero influito in maniera determinante nella sospensione della proposta di legge. Negli scorsi giorni, per bocca dell’ambasciatore cinese a Londra, Pechino aveva rivendicato ufficialmente la propria estraneità ai fatti, attribuendo completamente alla chief executive la maternità dell’emendamento che non implicherebbe solo la deportazione verso la mainland, ma verso tutti quei paesi con cui attualmente Hong Kong non ha accordi formali di estradizione. Un fattore che combinato alla vera miccia scatenante – un omicidio commesso da un hongkonghese a Taiwan rimasto ancora impunito – consente alle autorità locali di scendere a compromessi con le richieste popolari senza imbarazzare troppo la madrepatria.
D’altronde, la posizione di Pechino rimane ancora nebulosa. Ad oggi, anche in assenza di un provvedimento ad hoc, le autorità cinesi non hanno mancato di far sparire personaggi scomodi dall’ex colonia inglese. Nel frattempo, nonostante l’abortita legge sulla sicurezza nazionale del 2003, la libertà di stampa e d’opinione ha registrato ugualmente una drammatica erosione nella regione amministrativa speciale. A Pechino non serve rimaneggiare il quadro normativo per esercitare aggressivamente la propria sovranità su Hong Kong. Al contrario, il malumore causato dall’ultima iniziativa dell’amministrazione locale rischia di fomentare il dissenso sociale in un momento in cui la leadership di Xi Jinping – in piena guerra commerciale con Washington – non solo si trova a dover respingere le critiche della comunità internazionale per le politiche etniche repressive adottate nella regione islamica del Xinjiang. Ma fatica anche a placare le resistenze di Taiwan all’idea di un ricongiungimento nazionale attraverso l’introduzione del modello “un paese due sistemi”, adottato senza troppo successo a Hong Kong. E, nell’anno del 30esimo anno delle proteste di piazza Tian’amen, la cosa che probabilmente il regime comunista teme di più è uno sconfinamento del malcontento dalle periferie dell’ex Celeste Impero al resto del paese.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.