La guerra commerciale lanciata da Trump contro la Cina non minaccia soltanto la sopravvivenza di Huawei e le’economia di Shenzhen, di cui il colosso tecnologico rappresenta il 7% del pil. Ritorsioni prolungate rischiano di azzoppare la crescita economica di tutto il delta del fiume delle Perle, la culla del manifatturiero cinese ai tempi in cui la Cina era “fabbrica del mondo”, ma anche cuore pulsante dell’attuale produzione hi-tech, con Zte, il produttore di droni DJI, Tencent e Foxconn tutti concentrati nel’arco di pochi chilometri. Non solo l’area potrebbe presto risentire di un futuro calo dell’export a causa delle tariffe. Le limitazioni sulla vendita di tecnologia a Huawei – che secondo varie fonti potrebbe presto colpire anche DJI – rischiano di compromettere tutta la filiera concentrata nel triangolo Shenzhen, Guangzhou, Dongguan e le varie città satellite. Senza contare che l’area dovrebbe rappresentare il fulcro del nuovo progetto per una Greater Bay Area con Hong Kong e Macao. Secondo gli esperti gli effetti della trade war diventeranno visibili nei prossimi quattro mesi [fonte: Scmp]
Il conto salato di un’esclusione cinese dal 5G europeo
Estromettere le aziende cinesi dallo sviluppo del 5G potrebbe costare all’Europa 55 miliardi di euro oltre a un ritardo di 18 mesi nel dispiegamento della tecnologia di quinta generazione nel Vecchio Continente. Lo rivela uno studio di GSMA, gruppo che riunisce 750 operatori mobile e di cui Huawei è uno dei principali fornitori. 55 miliardi è il totale di costi aggiuntivi che l’Europa si troverebbe a pagare in caso di un divieto totale non solo sul colosso di Ren Zhengfei ma anche su Zte, l’altra società cinese presa di mira lo scorso anno dall’amministrazione Trump. I due giganti di Shenzhen cinesi messi assieme hanno una quota di mercato congiunta nell’Unione europea superiore al 40%. Lo studio segue precisando che il ritardo di 18 mesi “allargherebbe il divario nella penetrazione dei 5G tra l’Ue e gli Stati Uniti di oltre 15 punti percentuali entro il 2025” [fonte: Reuters]
Il fratellastro di Kim era un uomo della CIA
Kim Jong-nam, il fratellastro del leader nordcoreano Kim Jong-un, ucciso in circostanze misteriose mentre si trovava all’aeroporto di Kuala Lumpur, era un agente della CIA. Lo confermano fonti del WSJ, avvalorando la tesi riportata dalla stampa giapponese nel 2017 secondo l’uomo si era recato in Malaysia per incontrare un agente dei servizi statunitensi di origini coreane. Estromesso dalla successione per frizioni con il padre, negli ultimi anni il primogenito di Kim Jong-il ha vissuto all’estero e non è chiaro quanto fosse al corrente delle vicende nordcoreane. Tuttavia, il suo ruolo rispecchia il crescente coinvolgimento dell’intelligence statunitense nella gestione dei rapporti con il Regno Eremita in assenza di relazioni diplomatiche ufficiali. Non solo due anni fa la CIA ha lanciato il Korea Mission Center per tracciare lo sviluppo dell’arsenale nucleare e missilistico nordcoreano. Ma i servizi americano hanno spesso interceduto nel rilascio di cittadini americani finiti agli arresti mentre si trovavano al Nord [fonte: WSJ]
Gruppo per la difesa dei diritti umani mappa le esecuzioni del regime nordcoreano
Il Transitional Justice Working Group, organizzazione per la difesa dei diritti umani con base in Corea del Sud, ha rintracciato oltre 300 siti in cui il regime nordcoreano avrebbe condotto esecuzioni pubbliche e uccisioni extragiudiziali. Secondo il gruppo – che ha condotto ricerche per quattro anni avvalendosi della testimonianza di 600 disertori nordcoreani – mentre parte dei giustiziati sarebbe stata messa a morte per ragioni politiche, la maggioranza dei condannati ha dovuto rispondere di accuse comuni come il “furto di rame e bestiame”, l’organizzazione di attività “anti-statali” o il passaggio illegale oltre il confine con la Cina. Le testimonianze – non verificabili – in molti casi non specificano la data e la frequenza delle esecuzioni, e sono attribuite perlopiù da disertori provenienti dalle stesse aree del paese [fonte: Reuters]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.