Al di là di come la si pensi, Mao Zedong, il Grande Timoniere, ci ha lasciato una serie di perle che, all’epoca, ebbero la capacità di galvanizzare la formazione politica e le aspirazioni di uguaglianza e giustizia di molti di noi. Per citarne alcune, mi limito a dire che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, che “una scintilla può incendiare la prateria”, e ancora che “il potere nasce dalla canna del fucile”. Pragmatica saggezza cinese che per noi occidentali suonavano in linea di continuità con gli aforismi confuciani, o sintetiche esortazioni per i compagni di lotta? Se prendiamo il “pranzo di gala”, conveniamo che i processi rivoluzionari non rispettano il galateo, e sono decisamente privi di etichetta e di bon-ton; siamo anche d’accordo che se non si comincia da qualche parte, per esempio da una “scintilla”, non si avrà alcuna combustione né si vedranno fuochi e roghi, simbolici o concreti che siano; quanto al “fucile”, si contano sulle dita di una mano le rivoluzioni che sono state tentate o praticate senza l’uso delle armi (per inciso, polvere da sparo e armi da fuoco furono inventate in Cina…).
Tra le eccezioni di vere e proprie rivolte condotte senza armi, sono da annoverare, ad esempio, la Primavera di Praga (1968), la Rivoluzione dei Garofani – chiamata così perché i soldati ribelli esibivano un garofano nella canna del loro fucile – che in Portogallo pose fine a quarantotto anni di dittatura (1974), la mobilitazione dei tedeschi per la riunificazione della Germania (1990), il cambio di regime in Africa del Sud grazie al movimento creatosi attorno alla figura di Nelson Mandela (eletto poi Presidente della Repubblica nel 1994), le manifestazioni di Tian’anmen in Cina su cui torneremo tra breve. Tra queste eccezioni, non metto la lotta anticolonialista indiana: Gandhi avrebbe voluto che fosse usato soltanto il metodo non violento ma, in realtà, il Mahatma non riuscì a tenere a bada i gruppi più radicali, per niente pacifici, che praticarono, l’uso delle armi, tanto che Gandhi stesso fu assassinato da un estremista indù.
Ritorniamo a Tian’anmen, luogo simbolico di una protesta rivoluzionaria che non utilizzò le armi nel senso tradizionale del termine, avvenuta in Cina dal 15 aprile al 4 giugno 1989, e che il potere cinese ha etichettato, per banalizzarla, come Incidente di Tian’anmen (Tian’anmen shigu 天安门事故 ), ma che noi ricordiamo come il Massacro di Tian’anmen.
Non voglio qui ripercorrere i tragici avvenimenti di quella che fu la Primavera Democratica Cinese il cui trentennale è ampiamente ricordato e rivisitato in questi giorni da buona parte della stampa mondiale, bensì parlare delle non-armi che gli studenti e la gente del popolo utilizzarono per sfidare il regime: bottigliette messe a testa in giù. Niente di più pacifico: semplici, innocue, banali, piccole bottiglie, capovolgendo le quali si auspicava il capovolgimento e la fine politica del più potente esponente di governo di allora, Deng Xiaoping 邓小平, capo della Commissione Militare Centrale del Partito Comunista Cinese, responsabile di epurazioni ai vertici del partito e ideatore di quelle riforme economiche che avrebbero trasformato il volto della Cina spingendola velocemente nelle braccia della modernità e della cosiddetta economia socialista di mercato, senza protezioni sociali né garanzie democratiche.
Ma qual è il rapporto tra Deng Xiaoping e le bottigliette? La spiegazione si trova nella complessità tonale della lingua cinese e nella sua ricchezza lessicale per cui i termini omofoni abbondano, si contano a migliaia; così pronunciare Xiaoping può significare sia小平 , il nome proprio di Deng, che l’omofono xiaoping 小瓶 che significa “piccola bottiglia”.
L’idea geniale nacque in una mente arguta rimasta sconosciuta, e poi si diffuse prima nella capitale Pechino e poi a macchia d’olio un po’ dappertutto, in Cina. Il gesto di poggiare per terra o su una qualunque superficie una bottiglietta capovolta divenne in brevissimo tempo l’atto rivoluzionario per eccellenza, l’intelligente derisione del potere, l’immediata provocazione, lacerante e fulminante come una pallottola: Deng Xiaoping a testa in giù! Dieci, cento, mille bottigliette, dieci, cento, mille pallottole di creatività, una scarica di simbolica mitraglia. Altro che canna del fucile!
Purtroppo, come sappiamo, il potere cinese rispose alle bottigliette capovolte con una violentissima repressione che non ebbe nulla di geniale né di arguto, ma servì – purtroppo – a confermare che, anche quando la rivoluzione è pacifica, un pranzo di gala, la repressione è sempre un feroce e sanguinolento banchetto. Per questa spaventosa repressione, però, i dirigenti cinesi dovrebbero preoccuparsi perché, se è vero ciò che affermò J. F. Kennedy, “coloro che rendono impossibili le rivoluzioni pacifiche, rendono inevitabili le rivoluzioni violente.”
*Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015) e “Il dio dell’I-Ching” (2017).