***
Il 4 settembre andai a Victoria Park, dove si teneva una grande veglia a lume di candela per commemorare quanto successo tre mesi prima. Quando dicevo che stavo per tornare a Pechino, la gente reagiva con stupore e mi pregava di fare attenzione. Volevo tornare per togliermi dagli occhi quell’immagine della città e per poter capire quello che mi sembrava incomprensibile.
All’aeroporto di Kai Tak, il vecchio aeroporto di Hong Kong, la signora al check-in mi disse di fare attenzione una volta arrivata a Pechino. Appena atterrata (anche qui, nel vecchio aeroporto, piccolo e dall’architettura socialista, precedente a quella megalomane e futurista degli anni successivi) un funzionario dell’immigrazione mi venne incontro con un sorriso, dicendomi di non fare la coda e di andare al controllo passaporti per i vip e i diplomatici. Davanti alle mie obiezioni rispose con entusiasmo che, anche se solo studentessa, ero una “benvenutissima ospite straniera!”.
Tornai così nella mia stanza, alla Normale di Pechino. Tutte le cose lasciate al momento dell’evacuazione erano state messe in delle scatole di cartone, di fianco al letto. La mia bicicletta mi aspettava al parcheggio, con le ruote gonfiate. Il dormitorio degli studenti stranieri però era quasi vuoto. C’erano alcuni studenti della Corea del Nord, una donna liberiana in lite con la sua ambasciata perché non riusciva a lasciare il paese, un paio di studenti venuti per seguire corsi brevi e un insegnante di inglese.
In superficie sembrava che Pechino stesse guarendo. Un giorno presi un taxi per andare a Jianguomen, alcuni isolati a est di Tiananmen. Poco prima di entrare nel Viale della Pace Eterna, che costeggia la piazza, il tassista, senza dire nulla, mise su una cassetta; mentre le ruote della sua auto passavano sulle tracce lasciate dai carri armati nell’asfalto, partirono forti le note di Yi Wu Suo You, “Non posseggo nulla”, di Cui Jian, la canzone che era diventata uno degli inni degli studenti in piazza. I nostri sguardi si incrociarono attraverso lo specchietto retrovisore. Ascoltammo Cui Jian in silenzio.
Negli edifici d’angolo di Jianguomen si vedevano ancora i fori delle pallottole sui muri. Altri si potevano vedere sulla corteccia degli alberi. Presto, divenne un modo per tracciare una nuova mappa di Pechino. Con gli amici ci si chiedeva sottovoce cosa fosse successo nei vari punti della città e si notava anche con quanta fretta quei segni stessero sparendo, riempiti di cemento e coperti dalla vernice. Alcuni alberi venivano abbattuti, con la scusa di allargare le strade. Interi edifici troppo butterati venivano demoliti in nuvole di polvere, per aiutare l’amnesia.
La legge marziale era ancora in vigore e le strade erano piene di soldati. Qua e là si vedevano camionette parcheggiate, agli incroci ragazzi di leva con il fucile o il mitra, sull’attenti. C’erano strani movimenti di truppe e si sentivano spari risuonare nella notte.
Una sera, un ragazzo che avevo conosciuto l’anno prima venne a trovarmi all’università con un amico. Insistette perché andassimo tutti in discoteca. Era arrabbiato, stufo, nervoso: mi disse che non poteva sopportare che il partito si prendesse in quel modo la sua giovinezza. Andammo da Juliana’s, una delle prime discoteche di Pechino dentro all’Hotel Lido, l’hotel internazionale dove eravamo soliti andare dato che il giovedì l’ingresso era gratuito. Juliana’s era deserta, ricordava una caverna; c’era qualche uomo d’affari un po’ alticcio e poi noi tre. Malgrado la serata fosse così poco allegra, finimmo per fare tardi e ci ritrovammo in strada dopo le dieci di sera, ora in cui scattava il coprifuoco. Il tassista continuava a sgridarci per averlo chiamato così tardi.
All’incrocio di Hepingli, vicino alla Normale, fummo fermati. Un soldato ordinò che abbassassimo i finestrini e infilò il mitra nell’abitacolo all’altezza del mio naso, senza guardare. Appena mi vide, lo ritirò in tutta fretta. Sbraitando, disse all’autista di portare al sicuro “la straniera” e di non prendere la legge marziale alla leggera. I miei due compagni erano pallidi come cadaveri. Non andammo mai più a ballare insieme.
Pechino era diventata una città di sussurri. Tutti bisbigliavano, nelle stanze, per la strada; la gente vedeva soldati in borghese e informatori dappertutto. In modo concitato, alcuni raccontavano che, per quanto le autorità non lo volessero ammettere, dei capi di partito si erano improvvisamente ammalati o erano addirittura morti; si raccontava anche di complicati meccanismi per trasferire a Hong Kong gli studenti ricercati e poi da lì all’estero, verso l’esilio e la libertà. Alcune di queste storie erano vere, la maggior parte erano inventate, ma non c’era modo di verificarle.
Dopo qualche settimana iniziai a non tollerare più la desolazione dei corridoi vuoti della Normale e mi trasferii all’Università di Pechino, la più prestigiosa del paese, dove si stavano radunando tutti gli studenti stranieri che, come me, erano tornati dopo il 11 massacro. Essendo stata una delle università maggiormente coinvolte nelle manifestazioni, le autorità decisero di impedire agli studenti del primo anno di frequentare le lezioni, imponendo a tutti loro un anno di leva obbligatoria. Nel piccolo spiazzo chiamato San Jiao Di, un triangolo formato da bacheche dove chi voleva poteva appendere avvisi di vario tipo, non si vedeva più nessuno. Qualche mese prima era stato uno dei centri nevralgici delle proteste, dove gli studenti potevano tenersi aggiornati leggendo i dazibao e dove c’era una sorta di assemblea permanente. Ora si leggevano solo alcuni avvisi relativi alle lezioni di inglese, ai campionati di scacchi, alle dimostrazioni di qigong. Essere fra i pochi stranieri presenti a Pechino nell’autunno del 1989 voleva dire imparare a scansare i fotografi a caccia di immagini di propaganda. Gli stranieri erano la prova che nulla era accaduto. La foto di un mio compagno di classe svedese scattata mentre sorrideva a una venditrice di cetrioli era finita sul quotidiano in inglese China Daily. Quando gli avevano fatto vedere il giornale non riusciva a riaversi dall’imbarazzo.
Rividi l’amico che faceva il master in Scienze politiche: sua sorella stava bene. Contrariamente alla maggior parte delle persone che frequentavo, non stava cercando il modo per espatriare. Mi disse: “Ho 22 anni. Loro sono vecchi. Non staranno al governo tutta la mia vita”.
Intanto ogni settimana succedeva qualcosa di inatteso. Ai primi freddi apparvero, come sempre, montagne di cavolo cinese in tutta la città. Si chiama baicai ed è un cavolo allungato, con una parte bianca, dolciastra e pungente, e le foglie che vanno dal giallino al verde intenso. È una delle verdure più amate dai cinesi del nord, anche perché si conserva benissimo nei mesi invernali; lo si vede alle finestre, sui balconi, o infilzato sulle ringhiere prima di essere lavato e ridotto a striscioline per la zuppa o in pezzi squadrati per essere soffritto con altre verdure o con la carne o, ancora, sminuzzato per finire dentro ai ravioli al vapore. Una prelibatezza legata ai ricordi dell’infanzia, alle ricette della mamma o della nonna; un cavolo che sa di nostalgia anche la prima volta che lo si assaggia.
Nell’inverno del 1989 però non lo voleva nessuno. Vista la sua popolarità, il governo si era sempre premurato che una parte significativa di baicai arrivasse sul mercato con prezzi calmierati, in modo che tutti potessero permetterselo. Nel corso del mio primo inverno pechinese, quando avevo visto le persone in coda per comprare il cavolo, mi ero quasi sentita in colpa per non aver capito che c’era un problema di accesso al cibo. L’avevo raccontato alla mia venditrice di yogurt, che si era messa a ridere della mia stupidaggine: “Ma no! Fanno la coda per potersi aggiudicare i più grossi e i migliori, lo aspettano tutto l’anno, è come una festa. Altro che ristrettezze!”. Quell’anno, invece, il cavolo rimaneva ammucchiato per la strada, spargendo uno strano odore nei quartieri.
Alla fine (grazie alla curiosa associazione cavolo-governo), l’unica protesta che i pechinesi si erano sentiti di poter fare senza mettersi nei guai era stata la rinuncia al baicai. Non si poteva fare niente. Visto che non si poteva dire niente ad alta voce, neanche piangere per i propri morti, almeno si poteva lasciare che il cavolo marcisse per la strada! Così il Quotidiano del Popolo un bel giorno se ne uscì con un editoriale che cantava le virtù del “cavolo patriottico” incoraggiando tutti a comprarne. Non bastò, e furono le istituzioni pubbliche, come le università, a supplire allo scarso spirito patriottico dei cittadini. In mensa, mangiammo cavolo tutti i giorni per mesi.
*Ilaria Maria Sala, giornalista, laureata in Cinese e Studi religiosi a Londra, ha vissuto gli ultimi quindici anni a Pechino, Tokyo e Hong Kong. Collabora regolarmente con The Guardian, The Wall Street Journal e China File.