Il dipartimento del commercio degli Usa ha comunicato di aver prorogato per 90 giorni l’avvio delle restrizioni nei confronti di Huawei da parte di Google, in modo che le due parti possano mettere a punto le procedure di sicurezza sugli apparecchi già in funzione. Si tratta di una proroga che oltre ad essere «tecnica» apre spiragli anche per una pausa di natura diplomatica, intrecciata ai colloqui sottotraccia in corso tra Pechino e Washington per la più generale questione dei dazi, legata in modo ferreo a tutto quanto ruota intorno alla sfida tecnologica.
Il giorno dopo l’annuncio di Google di bloccare gli aggiornamenti e le forniture di servizi a Huawei, è stato caratterizzato anche dalle nuove esternazioni di Ren Zhengfei, fondatore dell’azienda cinese, nata nel 1987 con soli 3mila dollari di investimento. Ren durante una conferenza stampa con i media cinesi non ha certo usato toni e parole concilianti. Il capo della Huawei ha ribadito alcuni concetti che a Pechino girano ormai da tempo: Huawei, ha detto, era preparata allo scenario che si è presentato negli ultimi giorni. Eventualità confermata nei mesi scorsi dal management del colosso, secondo il quale Huawei è da tempo impegnata a realizzare un proprio sistema operativo capace di tagliare ogni forma di relazione con Android e dunque con big G. Non solo però, perché Ren ha voluto sottolineare l’aspetto che in tutta questa storia è centrale: secondo il fondatore della Huawei la sua azienda sarebbe davanti ai suoi competitor per quanto riguarda la tecnologia 5G di almeno due o tre anni.
Per quanto riguarda il business, secondo Ren «Huawei mantiene una capacità di produzione di massa per componenti chiave specifici, compresi i chip, e il divieto degli Stati uniti non determinerà una crescita aziendale negativa».
E non solo: «Abbiamo sacrificato noi stessi e le nostre famiglie per il nostro ideale, per stare in cima al mondo. Per raggiungere questo ideale, prima o poi ci sarà conflitto con gli Stati uniti». Parola di Ren Zhengfei. Naturalmente questi toni orgogliosi e decisamente battaglieri, prevenienti da un ex vicedirettore del genio militare, ad oggi non si ritrovano sui canali diplomatici politici.
Pechino attraverso Xi Jinping, il numero uno, negli ultimi giorni ha dato alcuni segnali seguendo le proprie liturgie: Xi ha visitato i funzionari di polizia, chiedendo fedeltà e impegno per il mantenimento della stabilità; nel suo viaggio interno nello Jiangxi ha ricordato invece la «Lunga marcia» associandola proprio alla fase attuale, scuotendo i funzionari del partito, indicando la necessità di una nuova impresa.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.