Mentre i negoziati commerciali tra Cina e Stati Uniti proseguono senza sosta, permane il sospetto più o meno condiviso che la rimozione delle tariffe incrociate non basterà a placare una rivalitàormai trasversale. Dalla supremazia tecnologica alla definizione di nuove “alleanze” sullo scacchiere globale. Un’ultima conferma arriva dal rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), istituto internazionale indipendente specializzato in peace studies, secondo il quale, grazie alla spinta militarista di Washington e Pechino, nel 2018 la spesa mondiale destinata alla Difesa ha raggiunto la cifra astronomica di 1,82 trilioni di dollari, un 2,6% in più rispetto all’anno precedente. Si tratta della somma più elevata mai registrata a partire dal 1988, anno in cui i dati sono diventati per la prima volta disponibili.
A guidare la classifica troviamo come sempre gli Stati Uniti con 649 miliardi di dollari, un 4,6% in più su base annua – pari al 36% della spesa militare globale e quasi quanto investito complessivamente dai seguenti otto paesi messi insieme. Secondo il report, nonostante la riduzione del numero delle truppe statunitensi in zone di conflitto come l’Afghanistan, le statistiche rivelano il primo incremento americano dal 2010. Un trend destinato probabilmente a salire, considerata la richiesta del Pentagono per l’approvazione di un budget totale di 750 miliardi di dollari da investire nel 2020 per “accrescere la prontezza e la letalità” delle forze armate americane e rispondere al meglio alla competizione strategica con le potenze eurasiatiche in ascesa. Come spiega il Sipri, “l’aumento della spesa negli Stati Uniti è stato determinato dall’attuazione, dal 2017, di nuovi programmi di acquisizione di armi sotto l’amministrazione Trump“.
Sebbene con largo distacco, il secondo gradino del podio è andato alla Cina, che con 250 miliardi di dollari ha regalato alla Difesa un 5,0% in più su base annua, mettendo a segno il 24esimo aumento consecutivo. Una somma ragguardevole – sebbene ancorata all’1,9% del Pil fin dal 2013 – che supera largamente l’obiettivo ufficiale per l’anno in corso (177,61 miliardi di dollari) includendo tutte quelle voci di spesa che sfuggono al computo reso noto ogni marzo dal parlamento cinese. Anche secondo le stime governative, se comparato con le altre priorità nazionali, un aumento stimato del 7,5% del budget militare resta superiore al target di crescita economica (tra il 6 e il 6,5%). Per le autorità comuniste, la somma “è giustificata dal bisogno di salvaguardare la propria sicurezza nazionale e di portare avanti un piano di riforme militari con caratteristiche cinesi”. Massima priorità, dunque, “alla difesa della sovranità e della sicurezza territoriale” – specie nello Stretto di Taiwan e negli arcipelaghi contesi del Mar cinese – ma rigorosamente con scopi difensivi: non si prefigura “alcuna minaccia per l’ordine mondiale”.
Quali siano le reali intenzioni delle due superpotenze, secondo Nan Tian, ricercatrice del Sipri , “nel 2018 gli Stati Uniti e la Cina hanno contato per metà della spesa militare mondiale”. Complice il rallentamento della Russia, ormai fuori dalla top 5, e del Medio Oriente, in declino dell’1,9%.
Schermaglie marittime a parte, Pechino dal canto suo persegue un traguardo ben preciso: rendere la Cina una grande potenza militare entro il 2050. A tal fine, nel 2015 il presidente Xi Jinping – che è anche capo delle forze armate – si è fatto promotore di una riforma dell’esercito senza precedenti volta a snellire numericamente gli apparati militari per migliorare l’efficienza dopo decenni di lontananza dal campo di battaglia. Appena pochi giorni fa il leader ha presieduto le celebrazioni per il 70esimo anniversario della Marina – la quinta parata militare da quando assunto l’incarico – a cui hanno partecipato tredici paesi. L’assenza degli Stati Uniti, sommata al crescente attivismo di Washington in prossimità delle isole contese in sostegno degli alleati asiatici e delle rotte commerciali internazionali, smaschera una rivalitàdirettamente proporzionale all’influenza esercitata da Pechino in termini economici.
La Cina si è conquistata ben 23 menzioni nella National Security Strategy – annunciata dall’amministrazione Trump nel dicembre 2017 – che secondo l’istituto Carnegie Endowment for International Peace ricalibra per la prima volta le priorità difensive americane dall’attentato dell’11 settembre, ridefinendo il ruolo di Pechino da partner nella risoluzione dei dossier globali a competitor.
Mentre il gap nella spesa militare rimane incolmabile nel breve periodo, l’insofferenza americana sembra più che motivata. Non solo nel 2017 il gigante asiatico ha superato gli States per numero di sottomarini e navi da guerra (317 contro 283). Secondo un report speciale della Reuters – grazie alle limitazioni autoimposte da Washington e Mosca nell’ambito del trattato Inf – la Cina – che non è tra i firmatari – si è aggiudicata un semi monopolio sullo sviluppo di missili convenzionali in grado di colpire le portaerei statunitensi al largo della costa americana, le basi in Giappone o persino Guam, nell’Oceano Pacifico. Rimane, tuttavia, nettamente indietro per numero di portaerei: solo una operativa contro le 11 di Washington. “Non possiamo sconfiggere gli Stati Uniti in mare”, spiega un colonnello in pensione dell’Esercito popolare di liberazione, “ma abbiamo missili che mirano specificamente alle portaerei per impedir loro di avvicinarsi alle nostre acque territoriali in caso di conflitto”.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.