La collaborazione scientifica tra Microsoft e un’università militare cinese rende il colosso tecnologico statunitense parzialmente complice degli apparati di sorveglianza di Pechino. È quanto suggerisce un’inchiesta del Financial Times, che cita tre paper pubblicati tra marzo e novembre dello scorso anno, realizzati congiuntamente da accademici della Microsoft Research Asia di Pechino e ricercatori affiliati alla National University of Defense Technology, istituto controllato dalla Commissione militare centrale, l’organo decisionale dell’esercito cinese.
A preoccupare gli esperti è soprattutto uno studio sull’applicazione dell’intelligenza artificiale (AI) per ricreare mappe dettagliate analizzando volti umani, applicabile anche con scopi di sorveglianza e censura. Stando a quanto spiegato nel report, il sistema fornisce una comprensione migliore dell’ambiente circostante “non percepita dalle fotocamere“, che può avere una “varietà di applicazioni visive”. La partnership con i ricercatori della NUDT ha inoltre prodotto almeno altre due ricerche potenzialmente compromettenti riguardanti l’impiego dell’intelligenza artificiale per la comprensione automatica che – stando a Elsa Kania, esperta di tecnologia militare cinese presso il think tank Center for a New American Security – implicano il possibile impiego “dell’elaborazione del linguaggio naturale come metodo per abilitare la censura su larga scala”.
Per Samm Sacks, senior fellow del think tank New America, “la natura della tecnologia” coinvolta e “l’affiliazioni degli autori” rappresentano “un campanello d’allarme” se si considera i controversi campi d’applicazione a cui è soggetta l’AI in Cina”, specie nella regione autonoma del Xinjiang dove Pechino ha dispiegato un sofisticato apparato di videosorveglianza per controllare le minoranze musulmane. Ma non solo. Basta pensare a come la fioritura di nuovi servizi di streaming ha spinto le aziende cinesi a cooptare l’AI per gestire il lavoro di etichettatura e classificazione dei contenuti in diverse categorie di rischio così da supportare il team umano preposto al monitoraggio di quanto trasmesso.
La questione è quantomai attuale. Da mesi – come anticipato dal US Export Control Reform Act di agosto – l’amministrazione Trump ha al vaglio misure più stringenti sull’esportazione di tecnologie avanzate, dalla genomica all’informatica quantistica, non tanto per prevenirne un utilizzo coercitivo quanto piuttosto per difendere la leadership americana, a cui Pechino ha lanciato il guanto della sfida con il piano industriale “made in China 2025“. Una roadmap che nel giro di un lustro dovrebbe rendere la Repubblica popolare autonoma nella fornitura del 70% della componentistica.
Come spiega al Financial Times Adam Segal, esperto di cyber space policy presso il Council on Foreign Relations, “i partenariati accademici tra Cina e Stati Uniti sono sempre più sotto il microscopio”. Il piano d’azione prevede il coinvolgimento parallelo dell’FBI – impegnata a soppesare l’eventuale partecipazione di studenti e scienziati cinesi ad attività di spionaggio – e del dipartimento della Difesa, incaricato di prevenire il trasferimento di tecnologie all’Esercito popolare di liberazione. Secondo la rivista finanziaria Caixin, sono diverse centinaia gli studenti impossibilitati a terminare il proprio percorso formativo a causa delle restrizioni sui visti introdotte lo scorso anno per i cinesi iscritti a master o dottorati in robotica aviazione o manifattura high-end.
Proprio la scorsa settimana, il Massachusetts Institute of Technology è diventato l’ultimo ateneo – dopo la Stanford University, la Università della California, Berkeley e l’ Università del Minnesota – a recidere i legami con il gigante delle telecomunicazioni Huawei contestualmente all’avvio di un’indagine volta ad accertare i rischi sottesi alle collaborazioni cinesi. Nel mentre, il dipartimento del Commercio ha aggiunto 37 aziende e università cinesi – molte delle quali operanti in settori quali ottica di precisione, elettronica e aviazione – nella “lista non verificata” dei soggetti con cui i fornitori statunitensi devono trattare con cautela.
Rispondendo alle accuse, Microsoft ha dichiarato che non solo “i ricercatori, spesso accademici, conducono ricerche fondamentali con importanti studiosi ed esperti di tutto il mondo per migliorare la nostra comprensione della tecnologia”. Le ricerche avvengono nel rispetto “dei nostri principi, in piena conformità alle leggi statunitensi e locali e. . . vengono pubblicate per garantire la trasparenza, in modo che tutti possano beneficiare del nostro lavoro”.
La creatura di Bill Gates non è l’unica azienda statunitense a finire sotto i riflettori per le sue attività oltre la Muraglia. Il mese scorso era stato Google a incassare le critiche concertate di Trump e del presidente del Joint Chiefs of Staff, il generale Joseph Dunford, secondo i quali il colosso di Mountain View starebbe aiutando l’esercito cinese nella sua fusione sinergica con il settore civile, anziché gli Stati Uniti. A ottobre il motore di ricerca aveva declinato l’offerta del Pentagono per un contratto di cloud computing da 10 miliardi di dollari, citando in causa i propri valori aziendali.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.