L’atrio degli uffici della Terminus, a Pechino, è completamente bianco. Il taglio a zig zag delle porte che consentono gli ingressi negli open space è quello che ricordiamo nei film di fantascienza e nella popolare serie di Guerre Stellari.
L’idea da trasmettere è quella di «futuro» più o meno immaginato e conosciuto, perché Terminus – fondata nel 2015, una delle tante startup cinesi divenuta ben presto «unicorno» (valutate oltre il miliardo di dollari) – il «futuro» lo maneggia per renderlo estremamente «presente». Il suo scopo è infatti quello di provvedere per conto del governo alla gestione «intelligente» di compound e interi quartieri cittadini, mettendo insieme quanto il vistoso e attuale menu in fatto di Intelligenza artificiale e Internet delle cose consente.
I QUARTIERI GESTITI dalla Terminus forniscono ogni genere di informazioni su residenti e passanti; tutte informazioni che arrivano da videocamere intelligenti, riconoscimenti facciali, geolocalizzazione, «voiceprint», le impronte audio: l’unione di tutte queste informazioni scorre di fronte a schermi controllati da uomini della sicurezza. Tutto è ripreso, ogni singolo movimento è registrato.
«Se non vediamo qualche abitante del palazzo per qualche giorno – raccontano gli addetti alla comunicazione mentre attraversiamo un corridoio – andiamo a controllare che tutto vada bene».
A corollario si controlla anche il livello di inquinamento e quello energetico di palazzi e strade, ma per il momento è un business meno redditizio di quello con il governo. «In pratica tutto il nostro lavoro rende più sicure le città dal rischio di attività criminali».
Come in tutti i luoghi di questo genere, che occhieggiano a un futurismo già visto o letto, c’è un’ampia parte degli uffici dedicata a mostrare le proprie potenzialità: un piccolo cinema sul cui schermo viene proiettato un video nel quale vengono presentati i partner (i nomi più altisonanti di tutto quanto è Intelligenza artificiale oggi in Cina) e infine una stanza con un tavolo contenente un plastico di una città e una parete con schermi e dati in lavorazione. Vengo avvertito però: non si possono fotografare quelle elaborazioni, «perché si tratta di dati sensibili», riferiti al comportamento di milioni di cittadini cinesi, proprio in quell’istante esatto in cui il mio sguardo va ad appoggiarsi sui numeri e i caratteri cinesi.
UN RISPETTO PER LA PRIVACY bizzarro per un’azienda che controlla 24 ore su 24 gli abitanti delle zone che «gestisce» fornendo i dati al governo cinese. Il cliente principale di Terminus è l’apparato securitario nazionale. Secondo quanto spiegato da Xie Chao – il vicepresidente di Terminus – a una rivista cinese, «la Cina è all’avanguardia in questo tipo di nuove applicazioni tecnologiche, specie nei casi di uso civile» e ha una sua forza sul mercato perché garantisce soluzioni complete ai governi locali che di solito non hanno né competenze né risorse per gestire tutta la gamma di aziende coinvolte nei progetti di smart city cinesi.
Secondo Xie Chao, «hanno bisogno di un partner fidato che possa aiutarli a trovare, integrare e gestire tutti i vari componenti hardware e software».
Come sottolineato da Forbes Asia, «Terminus aiuta i governi locali a migliorare la sicurezza pubblica utilizzando soluzioni basate sull’intelligenza artificiale». L’area su cui si concentra di più Terminus è il controllo della popolazione, che consente alle unità di gestione sociale più piccole della Cina, i comitati di quartiere, di monitorare meglio residenti, visitatori e veicoli all’interno delle aree designate».
NON SOLO TECNOLOGIA dunque. E a questo proposito è opportuno contestualizzare alcuni elementi. Quanto si può vedere negli uffici di Terminus e più in generale nelle intenzioni della dirigenza cinese, appare a noi occidentali come lo spettro di un potente Panopticon contemporaneo, una «società del controllo» realizzata unendo tradizione e modernità. Cominciando dal futuro, questa corsa alla tecnologia come strumento di controllo sociale e sorveglianza nasce qualche anno fa.
Come ricorda il Financial Times, «nel 2015, la polizia nazionale cinese e il ministero della Pubblica sicurezza avevano chiesto la creazione di una rete di videosorveglianza nazionale “onnipresente, completamente connessa, sempre attiva e completamente controllabile”. Il ministero e altre agenzie avevano dichiarato che le forze dell’ordine avrebbero dovuto ben presto utilizzare la tecnologia del riconoscimento facciale in combinazione con le videocamere per catturare i trasgressori della legge».
Secondo l’ufficio di pubblica sicurezza, oggi Pechino è coperta «al cento per cento» dalle telecamere di sicurezza e si tratta di un dato visibile anche al semplice turista. Negli hutong il sistema è poi perfezionato dalla presenza di tanti baoan, una specie di guardia municipale, con tanto di mini cancelli da aprire e chiudere per ostruire eventuali passaggi non consentiti o sgraditi
«LE SANZIONI PER I REATI minori – scrive il Ft – sembrano irragionevoli: le autorità di Fuzhou pubblicano i nomi di chi ha attraversato la strada con il rosso o fuori dalle strisce pedonali sui media locali e addirittura inviano le foto ai datori di lavoro. Più minacciose, tuttavia, sono le punizioni che verranno inflitte a persone che si associano a dissidenti o critici, che fanno circolare una petizione o sollevano un cartello di protesta, o che semplicemente finiscono nel posto sbagliato nel momento sbagliato».
Il nome del progetto governativo che vuole far sì che ci sia una telecamera ogni tre persone entro breve tempo in Cina si chiama xueliang, «occhi acuti», espressione che ricorda lo slogan maoista secondo il quale «la popolazione ha occhi acuti». È infatti importante sottolineare il contesto in cui tutto questo accade.
Non pochi osservatori hanno ricordato che la sorveglianza della popolazione è un elemento che si ritrova in parecchi momenti della storia cinese. Proprio alcune caratteristiche dell’organizzazione delle danwei, delle unità di produzione e delle unità di lavoro riecheggiano nelle contemporanee forme di controllo sociale in Cina che – secondo altri osservatori – risalgono addirittura al periodo della dinastia Song (960-1279) e al cosiddetto sistema baojia – composto da diverse unità familiari in concepite in chiave militare-difensiva.
Ma non solo, perché anche molto tempo prima, durante il breve periodo Qin (221 – 206 a.C.) – come racconta Kai Vogelsang – «nella vita quotidiana la società dei Qin era organizzata in modo perfettamente militare. Tutti gli abitanti erano divisi in gruppi di cinque o dieci famiglie che lavoravano insieme e si controllavano a vicenda. Nacque così un vigoroso sistema di sorveglianza in cui tutti erano sottoposti all’obbligo della denuncia e della responsabilità collettiva». Forse anche per questi rimandi più o meno lontani nel tempo, in generale i cinesi sembrano accettare questo sviluppo «cittadino» in nome della «sicurezza» e della deterrenza (ottenuta anche tramite modelli predittivi adottate dalle polizie locali) nei confronti dei criminali.
DAL PUNTO DI VISTA OCCIDENTALE, invece, questo sviluppo delle smart city ricorda il terzo capitolo di Sorvegliare e Punire nel quale Michel Foucault scriveva che «nello spazio in cui domina, il potere disciplinare manifesta la sua potenza, essenzialmente, sistemando degli oggetti». E chi è sottoposto al controllo «è visto ma non vede», è «oggetto di una informazione, mai soggetto di una comunicazione».
Nel mondo del controllo e della sorveglianza girano anche parecchi soldi. Terminus – come altre aziende cinese – è in corsa per un mercato in continua espansione. Per la stampa cinese, includendo «sistemi di videosorveglianza, controllo accessi, allarmi della polizia, sistemi di ispezione di sicurezza» e altro ancora, il mercato della sicurezza pubblica era stimato in 90 miliardi di dollari a fine 2017 e si prevede una crescita a 162 miliardi nel 2023, secondo quanto stimato dalla China Security And Protection Industry Association.
Ugualmente florido è il mercato che verrà offerto dalle tante smart city. Terminus – secondo i dati di Alltech Asia – avrebbe completato 6.891 progetti di smart city in Cina.
Le sue soluzioni coprirebbero un’area totale di 554 milioni di metri quadrati per una popolazione di oltre 8 milioni. Lo sforzo, viene spiegato negli uffici di Terminus, sarà quello di riuscire ad applicare concetti «intelligenti» a palazzi residenziali, benché al momento il mercato non sia ancora in completa espansione.
IL SETTORE che tira di più infatti è quello delle smart city, considerate dal governo cinese come un percorso ottimale per quanto riguarda l’urbanizzazione e l’ottimizzazione dei servizi. Le origini del progetto legato alle smart city risale alla metà degli anni ’90. All’epoca venne lanciato un mega piano urbano; poi nel 2011, le iniziative di smart city furono inserite all’interno dell’allora 12° piano quinquennale. Nel 2018 la Cina ha sviluppato circa 500 sperimentazioni di «città intelligenti»: naturalmente si tratta di un numero superiore a quello di tutti gli altri paesi messi insieme.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.