Le Filippine si sono ritirate ufficialmente dalla Corte penale internazionale (ICC), diventando il secondo paese al mondo dopo il Burundi (2017) a lasciare il tribunale dell’Aia. La mossa, preannunciata un anno fa dal presidente Rodrigo Duterte, è diventata effettiva domenica allo scadere del termine tecnico di 12 mesi. La Corte Suprema delle Filippine ha deciso di non contestare la decisione, nonostante l’appello degli avvocati per la difesa dei diritti umani. Secondo i promotori dell’uscita, il sistema giudiziario nazionale sarebbe sufficiente ad assicurare la tutela dei diritti del popolo filippino.
A causare l’abbandono, la decisione della ICC di avviare indagini preliminari per verificare il ruolo del presidente Duterte e delle autorità di Manila nelle uccisioni di massa innescate dalla campagna antidroga avviata nel 2016. Secondo le organizzazioni internazionali, oltre 20mila persone hanno perso la vita nella guerra al narcotraffico, di cui la maggior parte per mano dei vigilantes e solo 5.000 in operazioni di polizia. Lo scorso novembre, tre funzionari delle forze dell’ordine sono stati condannati da un tribunale locale a pene detentive fino a 40 anni di carcere per l’omicidio del diciassettenne Kian Loyd delos Santos.
L’indagine in corso, corroborata lo scorso agosto dalle accuse dei parenti di otto vittime, era stata inizialmente richiesta nel 2017 dall’avvocato difensore di due ex carnefici convertiti alla giustizia. Le testimonianze dei pentiti riconducevano i primordi del massacro al tempo in cui Duterte era ancora sindaco di Davao, capitale de facto dell’isola meridionale di Mindanao. Lo stesso presidente ha ripetutamente ammesso di aver ucciso in più occasioni fin da quando aveva sedici anni, nonostante le smentite del suo entourage.
Mentre le operazioni di bonifica hanno colpito indiscriminatamente trafficanti, pusher e consumatori di stupefacenti, l’inclusione di vittime eccellenti parrebbe suggerire la natura sempre più politica della campagna. Proprio la scorsa settimana, altri 46 “narcopolitici” sono finiti nella lista dei criminali da neutralizzare in aggiunta agli altri 150 giudici, funzionari locali, poliziotti e militari precedentemente schedati. Alcuni sono stati freddati in circostanze sospette.
La risposta della comunità internazionale non si è fatta attendere. Secondo Amnesty, il ritiro di Manila dall’ICC non sarebbe altro che un “futile tentativo” di scappare alla giustizia. “Gli Stati membri del Consiglio per i diritti umani dell’Onu devono lanciare un’indagine internazionale indipendente per verificare la situazione dei diritti umani nelle Filippine, comprese le migliaia di uccisioni extragiudiziali commesse”. Tecnicamente, infatti, Duterte non è ancora salvo. Secondo l’Articolo 27 dello Statuto di Roma – il trattato internazionale istitutivo dell’ICC – il tribunale dell’Aia può continuare a esercitare la propria giurisdizione sui crimini perpetrati prima del ritiro effettivo dei suoi paesi membri.
Non solo. Per Abdiel Fajardo, presidente dell’Integrated Bar of the Philippines, la decisione unilaterale di Manila può ancora essere annullata dal momento che viola quanto stabilito dalla costituzione filippina. E cioè che l’uscita dal trattato debba avvenire attraverso lo stesso procedimento adottato per l’ingresso, ovvero con l’approvazione di due terzi del Senato.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.