Una delle principali motivazioni per cui l’antisemitismo si è sviluppato in modo diverso in Giappone è che qui erano totalmente assenti i contrasti religiosi largamente diffusi in occidente, dove, da secoli, vi era un forte contrasto tra il cristianesimo e l’ebraismo, dovuto principalmente al fatto che, secondi i cristiani, Gesù è il Messia, mentre dal punto di vista degli ebrei egli è solo un profeta e il vero Messia deve ancora scendere tra gli uomini. I cristiani, identificando l’ebreo con il Diavolo o l’Anticristo, lo consideravano il responsabile di tutti i mali e proprio da ciò derivano molti dei massacri compiuti ai danni degli ebrei nel corso della storia. Più in particolare, l’antisemitismo della Germania nazista era anche di carattere economico e politico, come si evince dalle numerose leggi emanate negli anni trenta, il cui obiettivo era diminuire il potere degli ebrei, escludendoli dalla politica e dagli ambienti accademici e appropriandosi di tutti i loro beni.
Sebbene soprattutto durante la seconda guerra mondiale la Germania abbia diffuso in Giappone, suo alleato, opere e articoli di carattere antisemita, l’antisemitismo giapponese rimase comunque profondamente diverso da quello nazista: il Giappone non era interessato all’imposizione della gerarchia hitleriana del tipo ariani-ebrei, bensì all’affermazione della superiorità della razza giapponese sulle altre razze asiatiche.
Da ciò ne consegue che non aveva alcun interesse né alla cacciata degli ebrei dal proprio paese e dai territori occupati, né al loro sterminio. Inoltre, Hitler giustificò le sue discriminazioni, e in ultimo la soluzione finale, su base razziale: gli ebrei erano una razza inferiore e venivano additati come i responsabili di tutti i problemi di natura sociale, politica ed economica non solo della Germania, ma del mondo intero; per la creazione di una nuova società era quindi fondamentale annientarli completamente.
Soprattutto a partire dagli anni venti del 1900, iniziò a circolare anche in Giappone l’idea che gli ebrei fossero i responsabili di qualsiasi problema e conflitto del mondo, ma la risposta giapponese a questa accusa fu profondamente diversa da quella nazista. Tra il 1918 e il 1920, dopo lo scoppio della rivoluzione d’ottobre nel 1917, il Giappone, insieme a Stati Uniti, Francia, Canada, Gran Bretagna e Cecoslovacchia, inviò delle truppe in Siberia a fianco dei gruppi cosiddetti “bianchi” per contrastare l’Armata Rossa. Fu proprio in questo clima che alcuni militari giapponesi, per influenza dei controrivoluzionari, lessero uno dei testi più antisemiti della storia, “I protocolli dei savi anziani di Sion”, in cui si accusano gli ebrei di aver intessuto un piano segreto per distruggere l’economia e i sistemi politici mondiali, in modo da sostituire la civiltà cristiana con un impero sionista.
Sebbene questo testo, insieme ad altro materiale di carattere antisemita quali libri e articoli, circolasse in Giappone, la reazione da parte giapponese non fu rabbia e timore come in Europa, ma ammirazione, e la soluzione proposta non fu il genocidio degli ebrei, bensì, come si è visto nel caso della Manciuria, la collaborazione con essi, così che potessero contribuire allo sviluppo del Giappone e dei territori da esso occupati e, come vedremo nel caso dell’atteggiamento che ebbero i giapponesi nei confronti degli ebrei di Shanghai, la speranza che un buon trattamento dei rifugiati, che secondo i giapponesi controllavano i media e i sistemi politici di tutto il mondo, potesse rendere il Giappone una super potenza a livello internazionale vista di buon occhio dalle altre potenze, soprattutto dagli Stati Uniti. Un esempio della stima quasi cieca che i giapponesi nutrivano per gli ebrei e per le loro capacità, soprattutto in campo finanziario, è l’ammirazione per Jacob Schiff (1847-1920), un banchiere ebreo di New York i cui fondi donati al Giappone furono fondamentali per la vittoria della guerra russo-giapponese. Non erano solo le capacità finanziarie degli ebrei a essere esaltate, ma anche quelle intellettuali, come risulta dalla grandiosa accoglienza riservata al fisico Albert Einstein (1879-1955) quando arrivò a Kobe nel 1922.
Il Fugu Plan
Con Fugu Plan (hetun jihua, 河豚计划) si intende il piano elaborato tra il 1934 e il 1940 dai cosiddetti “esperti della questione ebraica” giapponesi, in particolare dal colonnello Yasue Norihiro (1886-1950) e dal capitano della marina militare Inuzuka Koreshige (1890-1965), con l’obiettivo di sfruttare le capacità degli ebrei a vantaggio del Giappone. Questo termine, coniato dagli storici, fa riferimento a un piatto tipico della cucina giapponese a base di fugu, ovvero pesce palla; com’è noto, è possibile godersi un buon piatto di pesce palla solo dopo un attento processo di estrazione degli organi interni, ricchi di veleno. Allo stesso modo, gli ebrei venivano considerati pericolosi in ambito politico e finanziario, ma, con il giusto approccio, potevano essere utilizzati a beneficio del Giappone. Il Fugu Plan rappresenta quindi la concretizzazione dell’intenzione del Giappone di volgere le capacità degli ebrei a proprio favore, mantenendo quindi lo stesso approccio adottato in Manciuria. Yasue e Inuzuka portarono le peculiarità dell’antisemitismo giapponese all’estremo, pubblicando articoli e tenendo conferenze sul presunto ed enorme potere nelle mani degli ebrei.A partire da queste convinzioni prese gradualmente forma il Fugu Plan, la cui proposta centrale era la creazione di un’area adibita alla sola residenza degli ebrei in Manciuria, che accogliesse innanzitutto i rifugiati di Shanghai, con l’obiettivo primario di sfruttare i loro capitali e la loro influenza.
È in questo clima che il 6 dicembre del 1938, pochi mesi prima dell’inizio del flusso migratorio dei rifugiati ebrei europei a Shanghai, si tenne la Conferenza dei Cinque Ministri, che da un lato confermò la volontà del Giappone di sfruttare i capitali degli ebrei e dall’altro lato chiarì la diversa posizione dei giapponesi nei confronti degli ebrei rispetto ai suoi alleati, Germania e Italia, soprattutto con il fine di non urtare gli Stati Uniti:
Our diplomatic ties with Germany and Italy require that we avoid embracing the Jewish people, in light of their rejection by our allies. But we should not reject them as they do because of our declared policy of racial equality, and their rejection would therefore be contrary to our spirit. This is particularly true in light of our need for foreign capital and our desire not to alienate America.
Con l’intensificazione del flusso migratorio, il Giappone diede il suo tacito consenso all’ingresso di migliaia di ebrei a Shanghai, ma alla fine l’obiettivo del Fugu Plan di adibire un’area alla sola residenza degli ebrei non ebbe successo, principalmente per due motivi: i fondi iniziali, ben cento milioni di dollari, avrebbero dovuto essere stanziati interamente dalle organizzazioni ebraiche degli Stati Uniti, ma con l’inizio della guerra questo divenne pressoché impossibile (Stati Uniti e Giappone, a partire dalla fine del 1941, erano pur sempre nemici) e, con l’intensificarsi del conflitto, il Giappone fu sottoposto a sollecitazioni da parte della Germania per quanto riguarda il trattamento degli ebrei presenti in territorio giapponese. Fortunatamente, però, il Giappone optò per una via di mezzo, ossia per l’istituzione di un ghetto, piuttosto che realizzare le proposte della Germania per lo sterminio dei rifugiati di Shanghai.
Il piano Meisinger
Il cosiddetto “piano Meisinger” rende bene l’idea della pressione a cui la Germania sottopose il Giappone. Joseph Meisinger (1899-1947), il capo della Gestapo polacca, si recò a Tokyo a capo di una delegazione poco dopo lo scoppio della guerra del Pacifico per proporre alle autorità giapponesi l’applicazione della soluzione finale agli ebrei di Shanghai. Meisinger presentò addirittura tre alternative: caricare gli ebrei su delle navi e lasciarli morire di fame e di sete al largo delle coste cinesi; costringerli ai lavori forzati nelle miniere di sale alla foce del fiume Huangpu, così che sarebbero presto morti di stenti; deportarli in un campo di concentramento sull’isola di Chongming (Chongming Dao, 崇明 岛), non distante da Shanghai, dove sarebbero stati sottoposti a ogni sorta di esperimento medico.
Fortunatamente, le autorità giapponesi opposero un rifiuto categorico all’attuazione del piano di Meisinger, nonostante lo sterminio degli ebrei avrebbe portato un vantaggio maggiore ai giapponesi: avrebbero accontentato gli alleati e liberato la città già affollata da migliaia di persone, oltre al fatto che non vi era nemmeno più il pericolo di inimicarsi gli Stati Uniti, dato che dalla fine del 1941 erano ormai nemici dichiarati.
Dopo la fine della guerra furono inoltre trovate a Shanghai delle latte contenenti Zyklon B, la sostanza tossica usata nelle camere a gas di alcuni campi di concentramento europei. Secondo alcune fonti, Meisinger si recò in sommergibile a Shanghai dopo aver ricevuto il rifiuto delle autorità giapponesi a Tokyo per cercare di convincere quelle locali, e avrebbe portato con sé le latte piene di sostanza tossica. Non vi sono tuttavia prove a sostegno di questa ipotesi e senza conferma rimangono anche le parole di alcuni ex-rifugiati che riportano di aver sentito voci circa la costruzione imminente di camere a gas nell’area di Pudong (浦东) e di aver visto uomini lavorare alla fabbricazione di edifici sospetti nella zona.
Per quanto riguarda l’atteggiamento tutto sommato benevolo che i giapponesi ebbero nei confronti dei rifugiati di Shanghai, non sapremo mai quanto abbia pesato il desiderio di utilizzare gli ebrei per un proprio tornaconto e quanto fondamentale sia stato il ruolo giocato dall’umanitarismo.
*Chiara Franchini ha una laurea triennale chiara.franchini@edu.unito.it in Lingue e Civiltà dell’Asia e dell’Africa Università degli Studi di Torino poi completata con una laurea magistrale presso lo stesso ateneo.
**Titolo originale della tesi “ Shanghai: un’inattesa possibilità di salvezza per gli Ebrei in fuga dall’Olocausto”, discussa presso l’Università degli studi di Torino, Dipartimento di Studi Umanistici , Corso di Laurea in Lingue e Civoltà dell’Asia e dell’Africa, Anno accademico 2017-2018Relatrice: Prof.ssa Stefania Stafutti Anno accademico 2017-2018