Domenica gli abitanti di Okinawa hanno potuto per la prima volta esprimere direttamente la loro opinione sulla presenza militare americana sull’isola in un referendum indetto dal neo-eletto governatore Denny Tamaki, strenuo oppositore delle basi Usa nell’arcipelago.
Il risultato è stato chiaro: il 53 per cento degli elettori ha votato e di questi il 70 per cento si è espresso contro la ricollocazione delle basi americane sull’isola a Henoko.
Tamaki dopo l’annuncio del risultato – che però non obbliga il governo a nessuna operazione a seguito del risultato, come ha del resto specificato Abe subito dopo la comunicazione dell’esito referendario – si è detto determinato a far sentire la voce dell’isola a Tokyo e Washington.
Egli è forte del numero di elettori contrari, circa quattrocento trentacinquemila su poco più di un milione e centomila aventi diritto. L’opposizione alla base ha superato anche il numero di coloro che hanno eletto Tamaki nel settembre scorso, con circa trecento settantamila voti.
Le basi americane di Okinawa ospitano la gran parte delle forze americane in Giappone – tra trenta e quarantamila militari, circa il settanta per cento del totale.
Questo è un peso che molti abitanti dell’isola ritengono eccessivo. Le ultime due amministrazioni locali in particolare hanno dato voce a questa idea e vorrebbero veder condiviso l’onere con tutto il resto del Giappone. Da qui è nata la speranza che la programmata chiusura della grande base di Futenma nel popoloso sud dell’isola fosse l’occasione per una riduzione definitiva del contingente.
Le loro speranze sono state fin’ora disattese dall’amministrazione Liberaldemocratica al governo del paese. Questo perché la questione delle basi sull’isola è al cuore del dilemma della politica estera di difesa nipponica: autoresponsabilità o delega agli Usa?
E mostra, secondo gli attivisti antibase, tutta l’ipocrisia dell’amministrazione verso la questione. A Tokyo la destra di governo vorrebbe la presenza americana, ma non la vuole troppo vicino a sé.
Anzi i critici più feroci arrivano a sostenere che la presenza americana a Okinawa sarebbe per Tokyo più accettabile proprio perché Okinawa stessa non solo è così strategica per la sua vicinanza alla Cina e al Sudest asiatico, ma perché non è poi così giapponese. L’arcipelago è stato colonizzato dal Giappone solo nell’ottocento e dopo la guerra è stato amministrato dagli Usa fino alla restituzione al Giappone nel 1972.
Gli abitanti di Okinawa, che parlavano anche una lingua diversa dal giapponese, sono i più poveri tra le prefetture giapponesi e spesso sono emigrati in cerca di lavoro sulle isole maggiori, ma trovandosi in una posizione sociale svantaggiata.
I lavori per la nuova base sono comunque già iniziati l’anno scorso e non sono stati interrotti per il referendum. La data del trasferimento, inizialmente promesso dall’amministrazione per il 2019, si allungherà di molto però, perché i lavori di riempimento necessari a costruire la base devono fare i conti con un terreno molto più morbido di quel che era previsto e richiederà 6 milioni di metri cubi di sabbia. Già si teme un rinvio ad un lontano futuro.
Sia il Ministro della difesa che il primo ministro giapponese Shinzo Abe hanno chiarito che il lavori continueranno indipendentemente dall’esito del referendum, mentre il capo di gabinetto Suga ha chiarito che l’intenzione originaria non cambia: si tratta solo di spostare la base in un luogo meno popolato e pericoloso per la popolazione, ma sempre sull’isola. L’opposizione, che spera anche di capitalizzare l’opposizione popolare in vista delle elezioni della camera alta di luglio, chiede di rispettare la volontà popolare. Tamaki ora è atteso a Tokyo nella giornata di venerdì per incontrare Abe e recarsi all’ambasciata americana.
[Pubblicato su il manifesto]